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Home » Tributario e previdenziale » TFR, tra gli accantonamenti rientra anche l’indennità di disagio

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TFR, tra gli accantonamenti rientra anche l’indennità di disagio

Avv. Beatrice Bellato consulenzalegaleitalia.it TFR, tra gli accantonamenti rientra anche l’indennità di disagio
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Avv. Beatrice Bellato

Accantonamento del TFR e indennità di disagio – indice: 

  • L’accantonamento del TFR
  • Il trasferimento d’azienda 
  • Azione dichiarativa e imprescrittibilità
  • L’indennità di disagio

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22291/2017, è intervenuta sul tema degli accantonamenti del trattamento di fine rapporto, affermando che tra di essi deve confluire anche la c.d. “indennità di disagio”. L’indennità di disagio è quell’indennità che viene erogata dal datore di lavoro per compensare la maggiore gravosità della prestazione del lavoro straordinario. Cerchiamo dunque di esaminare il caso in esame, e quali sono state le valutazioni alla base delle scelte della Suprema Corte.

Indennità di disagio e accantonamento del TFR

Della vicenda si è innanzitutto occupata la Corte territoriale di Milano. I giudici, con la sentenza del 7/6/2011, hanno dichiarato che un uomo, lavoratore dipendente di una S.r.l, ha diritto alla inclusione nell’accantonamento annuo del TFR, oltre che delle indennità già riconosciute, anche di quelle di disagio.

Contro tale decisione della Corte territoriale milanese è ricorsa in Cassazione la società segnalando la presunta violazione dell’art. 2112 c.c. sul trasferimento d’azienda.  La società ricorrente rammentava che la stessa società era subentrata nel rapporto di lavoro con il dipendente non in forza di cessione di azienda, bensì di un provvedimento amministrativo.

Ulteriormente, la società lamentava come la Corte avesse erroneamente valutato l’incidenza sul calcolo del Tfr dell’indennità di disagio ritenendola non un’entità figurativa bensì una “retribuzione”. Per questa ragione la Corte territoriale aveva fatto diventare tale indennità “una somma corrisposta in dipendenza del rapporto a titolo non occasionale e – rientrante – a pieno titolo tra le voci contemplate in proposito dall’art. 2120 c.c.”.

Trasferimento d’azienda

Passiamo ora in esame la decisione della Corte. In primo luogo gli Ermellini si occupano del fatto che la società ricorrente aveva denunciato la violazione dell’art. 2112 c.c.. Nel ricorso si è dedotto che la Corte di Appello di Milano non aveva accolto l’eccezione proposta, sin dall’inizio, “dalla società relativamente alla carenza di legittimazione passiva, in capo alla stessa, per l’impossibilità di applicare, nella fattispecie, l’art. 2112”. Nel dettaglio, la società lamentava che la Corte milanese avesse fatto propria una interpretazione estensiva della norma citata facendovi rientrare anche le ipotesi di trasferimento attuato per mezzo di un atto amministrativo, come è avvenuto nel caso di specie.  La società infatti era subentrata nel rapporto di lavoro con il dipendente non in forza di cessione di azienda, bensì di un provvedimento amministrativo.

Tale motivo di ricorso viene però ritenuto non fondato dalla Suprema Corte, che ricorda come la corte milanese abbia uniformato il proprio orientamento ai più recenti ed ormai consolidati sentieri giurisprudenziali di ispirazione europea. La giurisprudenza europea dominante ritiene applicabile l’art. 2112 c.c. anche ai trasferimenti di azienda a seguito di atto autoritativo della P.A..

Azione dichiarativa e imprescrittibilità

Con il secondo motivo di ricorso la società denunciava la violazione e la falsa applicazione dell’art.2934 c.c. e ss.  Denunciava inoltre l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Il ricorrente in particolare evidenziava che la sentenza della Corte distrettuale aveva ritenuto l’azione del dipendente come “meramente dichiarativa e, quindi, dotata del requisito della imprescrittibilità, mentre una rigorosa analisi del materiale di causa e dei principi giuridici di riferimento avrebbe condotto a rilevare l’intervenuta prescrizione dei diritti vantati dal resistente, in quanto riconducibili a fatti antecedenti i cinque anni anteriori all’introduzione del giudizio di prime cure, ovvero ai cinque anni anteriori alla proposizione del ricorso gerarchico”.

Ebbene, in questo caso la Cassazione ritiene il motivo come inammissibile. Sottolinea come il quadro normativo chiamato in causa si applichi non solo laddove la giurisprudenza della Corte di Cassazione “abbia già giudicato allo stesso modo della sentenza di merito la specifica fattispecie proposta dal ricorrente, ma anche quando il caso concreto non sia stato deciso e, tuttavia, si presti palesemente ad essere ricondotto, secondo i principi applicati da detta giurisprudenza, a casi assolutamente consimili e, comunque, in base alla logica pacificamente affermata con riguardo all’esegesi di un istituto nell’ambito del quale la vicenda particolare pacificamente si iscriva”.

Nel caso di specie

Nel caso in esame, i giudici della Corte territoriale milanese hanno affermato come “l’azione meramente dichiarativa è dotata del requisito di imprescrittibilità, prescrittibile essendo solo il diritto al cui concreto conseguimento l’azione di accertamento è strumentale” e che poiché nel caso di cui si discute “la domanda si fonda sul presupposto dell’errato mancato computo negli accantonamenti utili ai fini della futura liquidazione del TFR di alcune indennità: essendo evidente che il diritto che rappresenta il bene della vita al cui conseguimento la domanda è rivolta è rappresentato dalla corretta determinazione del TFR; che tale diritto sorge, come è noto, solo al momento della cessazione del rapporto; che pertanto la determinazione degli accantonamenti rappresenta esclusivamente l’atto idoneo ad eliminare la situazione di incertezza strumentale al conseguimento del diritto, non può nella specie porsi una questione di prescrizione”.

Indennità di disagio

Si giunge infine all’ultimo motivo di impugnazione, con il quale la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2120 c.c.. Si legge nella sentenza che “la Corte di merito avrebbe erroneamente ed immotivatamente considerato doverosa l’incidenza sul calcolo del TFR della c.d. indennità di disagio, considerandola, nonostante la sua evidente natura fittizia, ‘‘retribuzione” e per tale ragione, la detta indennità diventerebbe, senza alcuna verifica fattuale circa le sue modalità di percezione e di maturazione, una somma corrisposta in dipendenza del rapporto a titolo non occasionale e rientrerebbe, a pieno titolo, tra le voci contemplate in proposito dall’art. 2120 c.c.”.

Come già anticipato, anche in questo caso la Corte di legittimità ritiene infondato il motivo. I giudici della Suprema Corte ritengono che la Corte di merito abbia operato correttamente richiamando l’art. 2120 c.c. Tale norma stabilisce che l’accantonamento per il trattamento di fine rapporto include tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese. L’accantonamento non prevede, come invece viene erroneamente sostenuto dalla società ricorrente, che sul TFR incidano soltanto “i compensi continuativi corrispettivi a prestazioni effettivamente fornite”.

Ne consegue che per gli Ermellini la Corte distrettuale ha reputato correttamente che “l’indennità di disagio” dovesse incidere sugli accantonamenti per il TFR. La Corte ha perciò valutato correttamente che “tale voce retributiva viene erogata a titolo di corrispettivo per la maggiore gravosità della prestazione di lavoro straordinario, riconosciuta al prestatore d’opera in dipendenza del rapporto di lavoro”. Tale voce perciò non rientra “in alcuna delle ipotesi di esclusione degli accantonamenti previste dall’art. 2120 c.c. o dalla contrattazione collettiva”.

Avv. Bellato – diritto tributario e previdenziale

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