Pretesa erariale, l’onere probatorio è a carico del Fisco – guida rapida
- Lo svolgimento del processo sulla pretesa del Fisco
- L’onere della prova
- L’accertamento parziale
- L’onere della prova nel Codice civile
- L’onere della prova nel processo tributario
- L’onere della prova dopo la riforma
Stando a quanto sancisce la sentenza n. 2380/5 del 28 giugno 2023 da parte della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Milano, l’amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare in modo circostanziato la pretesa erariale. Deve cioè indicare in maniera precisa le ragioni giuridiche che sono poste a fondamento dell’atto impositivo, a pena di annullabilità dell’atto stesso.
Sulla base di tale principio la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Milano ha ritenuto non sufficientemente provata – da parte dell’Agenzia delle entrate – l’asserita non inerenza dei costi per insufficiente descrizione in fattura.
In particolare, nella fattispecie ora in commento i giudici della Corte di Giustizia Tributaria lombarda si sono rifatti a un caso analogo che si era risolto con sentenza n. 499/2023 dalla Corte di Giustizia Tributaria dell’Emilia Romagna: quest’ultima aveva rigettato l’appello proposto dall’Ufficio per non avere assolto all’onere della prova come disciplinato dal novellato art. 7 comma 5 bis D.lgs. 546/1992, adducendo una generica contestazione sull’inerenza dei costi relativa ad alcune fatture.
Lo svolgimento del processo sulla pretesa del Fisco
I controlli fiscali sono avvenuti nel corso di una verifica posta in essere dai propri funzionari nei confronti di una società a responsabilità limitata, esercente l’attività di “Discoteche, sale da ballo night” (codice attività n.932910), culminata poi con il verbale di constatazione notificato alla parte, e con il successivo avviso di accertamento con cui, ai sensi dell’art. 41 bis del DPR 600 del 1973, accertava IVA, IRAP, IRES e sanzioni per complessivi 863.686 euro.
In seguito a tale notifica di accertamento, il ricorrente presentava istanza di accertamento con adesione. L’Ufficio, per poter instaurare il contraddittorio, inoltrava alla parte un invito a comparire. Interveniva contraddittorio in due occasioni che, però, si concludevano con esito negativo. Si confermava così la pretesa che era stata originariamente notificata alla parte.
Tuttavia, con successivo ricorso, alla Corte di Giustizia Tributaria milanese, il contribuente ha impugnato il summenzionato avviso di accertamento con i seguenti motivi di ricorso.
Sono cinque i motivi di ricorso, che di seguito si riepilogano:
- Mancanza delle condizioni previste dalla normativa per procedere alla ricostruzione analitico-induttiva del volume d’affari.
- Applicazione errata del metodo analitico-induttivo dal punto di vista logico-giuridico.
- Applicazione errata del metodo analitico-induttivo dal punto di vista metodologico-operativo.
- Correttezza dei ricavi dichiarati e dell’erroneità della costruzione induttiva effettuata dall’Agenzia delle Entrate.
- Altri rilievi per costi asseritamente non inerenti o non documentati.
L’onere della prova
Letti gli atti ed ascoltate le parti, il Collegio accoglie il ricorso. Di fatti, pur nella considerazione della legittima ricostruzione indiretta dei ricavi operata dall’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate, il Fisco non ha riscontrato nulla in merito alla puntuale e metodica replica di parte ricorrente.
Per esempio, niente è stato eccepito rispetto a quanto sostenuto dalla parte sulla sostanziale congruità degli studi di settore, come provato dalla parte. E, allo stesso modo, sia in relazione all’asserita antieconomicità dell’attività della parte, sia in relazione ai rilievi della SIAE, niente di sostanziale viene eccepito dall’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate nelle proprie controdeduzioni rispetto a quanto puntualmente motivato dalla parte ricorrente.
Ancora, in relazione alla ricostruzione effettuata, i parametri adottati dall’Ufficio (come la percentuale ridotta di sfriso od il numero dei cocktail per persona, così come lo stesso numero di accessi al locale) non possono avere alcun valore probatorio ma possono solo fungere da semplice indizio.
In rapporto poi all’onere della prova, val la pena precisare che – come peraltro ribadito con il novellato art.7 comma 5-bis del D.Lgs. 546/1992 – l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare in modo puntuale e circonstanziato la propria pretesa erariale. Nelle sue dichiarazioni, deve pertanto indicare precisamente le ragioni oggettive alla base della pretesa erariale e della fondatezza dell’atto emesso, con la consapevolezza che in carenza di tale dimostrazione, l’atto impositivo deve essere annullato.
Anche con specifico riferimento all’asserita mancanza di inerenza di costi per presunta insufficiente descrizione in fattura (che è uno dei rilievi dell’Ufficio), la sentenza della Corte di Giustizia Tributaria dell’Emilia-Romagna di cui si è già detto si è espressa in relazione alla contestazione di inerenza per alcune fatture con descrizione asseritamente “generica”, stabilendo che l’appello dell’Ufficio sia infondato – in funzione del cosiddetto “nuovo onere della prova” – per non aver addotto elementi idonei a provare la pretesa e quindi non assolvendo l’onere dimostrativo.
Per questo motivo viene accolto il ricorso.
Accertamento parziale in base agli elementi segnalati dall’anagrafe tributaria
Si coglie l’occasione per ricordare il citato art. 41 bis del DPR 600 del 1973, come modificato dalla legge n. 220 del 13/12/2010, secondo cui senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice (…), i competenti uffici dell’Agenzia delle entrate, qualora dalle attività istruttorie (…) risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a formare il reddito imponibile (…) o l’esistenza di deduzioni, esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti nonché l’esistenza di imposte o di maggiori imposte non versate, escluse le ipotesi di cui agli articoli 36-bis e 36-ter, possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibili, ovvero la maggiore imposta da versare, anche avvalendosi delle procedure previste dal decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218. Non si applica la disposizione dell’articolo 44.
L’onere nella prova nel Codice civile
Ricordiamo inoltre che si parla di onere della prova, più genericamente, all’art. 2697 del Codice civile, laddove si evidenzia che chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
In altri termini, l’onere di provare un fatto ricade su colui che invoca proprio quel fatto a supporto della propria tesi argomentativa: chi vuole far valere un giudizio in diritto deve pertanto dimostrare i fatti costitutivi, che ne hanno determinato l’origine.
Di contro, colui che contesta la rilevanza di tali fatti in giudizio ha invece l’onere di dimostrarne l’inefficacia o provare eventuali altri fatti che abbiano mutato o fatto venir meno il diritto vantato, chiamati rispettivamente fatti impeditivi, modificativi ed estintivi.
In tal senso, la teoria della ripartizione dell’onere della prova è parte centrale del processo civile, valutato che l’adempimento dell’onere della prova è la condizione necessaria per ottenere la formazione del convincimento del giudice propria affermazione, che rappresenta la premessa necessaria alla richiesta di attribuzione di un bene della vita.
L’onere della prova nel processo tributario
A questo punto possiamo fare un passo in avanti nell’analisi del quadro normativo, rammentando come in origine la materia tributaria fosse sprovvista di una norma specifica in tema di onere della prova e che pertanto trovasse applicazione l’art. 2697 c.c.
La normativa introdotta nel Codice civile però è stata oggetto di diverse deviazioni, come l’indirizzo che faceva leva sulla presunzione di legittimità dell’atto amministrativo che addossava l’onere della prova nel processo tributario sempre e comunque sul contribuente, determinando insomma una sorta di presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, fondato sia in fatto che in diritto sino a prova contraria.
Fin dalla fine degli anni ’70, però, questo indirizzo è stato superato, tanto che oggi non è certo fatto controverso che anche nel rapporto tributario valga la disposizione di cui all’art. 2697 c.c., in base al quale anche nelle vicende tributarie l’Amministrazione Finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, così come spetta al contribuente la prova del fatto costitutivo nelle liti in materia di rimborso.
Da ultimo è intervenuta la legge di riforma del processo tributario n. 130 del 31 agosto 2022, entrata in vigore il 16 settembre 2022, che ha introdotto una specifica disposizione in materia, aggiungendo, di fatto, il comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992.
Come è cambiato l’onere della prova dopo la riforma del processo tributario
Con l’entrata della l. n. 130/2022 il legislatore è dunque intervenuto sull’onere probatorio in materia tributaria, con cui non solo ristabilisce le regole tradizionali in materia di onere probatorio, ma istituisce anche un maggiore rigore nell’individuazione delle prove da parte dell’Amministrazione finanziaria e nella valutazione delle stesse da parte del giudice tributario.
In particolare, il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992 dispone che:
L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.
In termini più chiari, si può dunque desumere che:
- l’amministrazione deve provare i presupposti di fatto e di diritto della propria pretesa erariale, con il Fisco che dovrà pertanto fornire la prova dell’esistenza dell’an e del quantum dei fatti che costituiscono l’obbligazione tributaria. Spetta invece al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso se non è conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati;
- il giudice fonda la propria decisione sugli elementi di prova che emergono dal giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza è mancante o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare in maniera circostanziata e puntuale le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
Conclusioni
Insomma, la nuova disposizione normativa richiede una capacità dimostrativa della pretesa, con conseguente limitazione dei poteri discrezionali del giudice nella sua valutazione.
Il nuovo comma 5-bis chiarisce infatti che il dovere del giudice di esprimere il suo prudente apprezzamento deve essere basato sulla verifica della sussistenza di una prova specifica, puntuale e circostanziata dei fatti contestati.
Laddove tale prova sia carente, allora il giudice dovrà annullare l’atto impositivo. Più nello specifico, il giudice ha l’obbligo di dichiarare la nullità dell’atto impugnato qualora la prova della sua fondatezza sia mancante, contraddittoria e insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale.