Criptovalute nella dichiarazione dei redditi – indice
Complice anche una parziale carenza da parte di legislatore e Agenzia delle Entrate, il tema delle criptovalute e della loro presenza nella dichiarazione dei redditi ha sempre rappresentato un cruccio per commercialisti e contribuenti.
E così, a mettere una pezza alle mancanze sono stati i giudici amministrativi, con il TAR Roma che con pronuncia n. 1077 del 27 gennaio 2020 ha sgombrato il campo dai dubbi… almeno per ora.
Cerchiamo allora di comprendere che cosa abbia affermato il TAR, e se le criptovalute devono effettivamente essere inserite o meno in dichiarazione dei redditi.
Cosa sono le criptovalute
Per poter arrivare a comprendere che cosa abbiano deciso i giudici amministrativi, è opportuno procedere con gradualità e capire in che modo si sia sviluppato il ricorso che è giunto sulle scrivanie del TAR.
Il ricorso era stato avviato l’anno scorso da alcune associazioni che hanno come obiettivo quello di promuovere la diffusione della blockchain (ovvero, la tecnologia alla base delle criptovalute), e che hanno contestato l’inserimento delle criptovalute / valute virtuali, da parte dell’Agenzia delle entrate, nel novero degli obblighi di monitoraggio fiscale, individuandone i detentori come destinatari degli adempimenti di cui al d.l. n. 167 del 28 giugno 1990, e senza che alcuna norma primaria o secondaria abbia però previsto ciò.
Ricordiamo che il d.l. 167 del 28 giugno 1990 reca istruzioni per la rilevazione ai fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori, con la conseguenza che per il Fisco le criptovalute sarebbero da porre in equivalenza alle valute straniere.
Per le associazioni ricorrenti, evidentemente, così non può essere. E, dopo aver rammentato che tale inserimento risulterebbe operato attraverso la pubblicazione delle “istruzioni per la compilazione del modello 2019 per la dichiarazione dei redditi delle persone fisiche”, che al rigo 14 del quadro RW (quello relativo agli “investimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria”) hanno previsto in modo esplicito l’obbligo di indicare anche “le altre attività estere di natura finanziaria e valute virtuali”.
Per le associazioni, però, sono numerosi gli elementi che dovrebbero permettere una interpretazione differente.
Cos’è la blockchain
In primo luogo, affermano i ricorrenti, le valute virtuali come il Bitcoin sono registrazioni digitali che sono annotate in libri mastri definiti “blockchain”, le cui copie sono presenti in maniera distribuita, condivisa e decentralizzata sui computer e sui dispositivi di tutti gli utenti che partecipano alla stessa rete.
Il concetto di valuta virtuale come contenitore vuoto
Ancora, le associazioni si soffermano sul fatto che le valute virtuali altro non sarebbero che contenitori vuoti, astratti. E che, come tali, al limite possono essere riempiti di dati e trasmessi ad altri utenti. Con l’invio dei dati, però, l’originario possessore ne perde di fatto la disponibilità, esattamente come se quella criptovaluta fosse stata un oggetto fisico.
I ricorrenti confermano dunque che la blockchain sarebbe un registro virtuale in grado di tenere traccia dei messaggi ricevuti da ogni utente nel sistema. In questo modo si attesterebbe in modo univoco la capacità di spesa e si impedirebbe la c.d. doppia spesa.
Come vengono utilizzate
Un’altra caratteristica delle valute virtuali è poi la loro attitudine ad essere scambiate con valute che hanno corso legale, oppure essere scambiate con beni o servizi. Secondo le associazioni, queste caratteristiche sarebbero una prova che chi le vuole utilizzare vuole servirsene anche per poter condividere un sottostante fondamento ideologico e culturale, che è basato sul concetto di disintermediazione rispetto alle istituzioni centrali monetarie tradizionali.
La quotazione delle criptovalute
Tra gli aspetti più interessanti del ricorso c’è poi l’evidenza che esistono diverse migliaia di criptovalute. Molte di queste nascono e muoiono in breve tempo, altre sono qui da noi da molti anni. Una cosa è però in grado di accomunarle tutte. Per nessuna criptovaluta esiste infatti una quotazione ufficiale del prezzo. Ma allora da che cosa è rappresentato il prezzo?
Il prezzo è rappresentato dalla disponibilità all’acquisto da parte di altri utenti che partecipano allo stesso ecosistema. Ed è per questo motivo che il prezzo delle criptovalute è piuttosto volatile, subendo delle fluttuazioni anche ampie.
Proprio per questa ragione, supportata anche dalla “scarsità” delle criptovalute sul mercato (/come i Bitcoin), le criptovalute non dovrebbero essere equiparate agli investimenti o ad attività di natura finanziaria, visto che rappresentano solo un mezzo tecnologico finalizzato all’invio mediante rete peer-to-peer, di codici digitali.
L’aterritorialità
Un altro aspetto di rilevanza è poi rappresentato dall’applicazione del concetto di c.d. “aterritorialità”. La disponibilità delle valute virtuali coincide infatti con il possesso di una chiave privata, un codice che serve a confermare il trasferimento delle rappresentazioni digitali, e che costituisce un codice univoco, che non può certamente essere conservato per forza in un luogo fisico.
Insomma, per i ricorrenti le valute digitali come Bitcoin rappresentano una categoria di rappresentazioni digitali che è basata sulla blockchain, una tecnologia che permette di rendere più snella, sicura e convenienza la circolazione dei diritti su beni e servizi rappresentati o incorporati in essi.
Chiarito ciò, dopo una serie di motivi piuttosto vari e ben argomentati, le associazioni ricorrenti affermano che l’inserimento delle valute virtuali nell’obbligo di dichiarazione, tra i redditi finanziari di provenienza estera, sarebbe privo di titolo e contrasterebbe con norme nazionali e comunitarie.
Per questo motivo viene richiesto l’annullamento dei provvedimenti con cui l’Agenzia delle Entrate inserisce le valute digitali negli investimenti e nelle attività finanziarie detenute all’estero, nella misura in cui sottopone a imposizione tributaria le rappresentazioni digitali che non hanno invece di per sé una natura finanziaria o di investimento.
La dichiarazione dei redditi
Il TAR, dopo essersi soffermato su alcune altre posizioni del ricorso e del controricorso delle Entrate, si sofferma quindi finalmente sul tema che oggi ci interessa maggiormente. Ovvero: le criptovalute devono essere indicate o no in dichiarazione dei redditi?
Per far ciò, i giudici ricordano innanzitutto come ai sensi dell’art. 4 del d.l. 167/1990, convertito in l. 227/1990:
- le persone fisiche;
- gli enti non commerciali;
- le società semplici ed equiparate ai sensi dell’art. 5 TUIR;
- residenti in Italia, e che nel periodo di imposta detengono:
- investimenti all’estero;
- o attività estere di natura finanziaria;
che sono suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, hanno l’obbligo di indicarli nella dichiarazione annuale dei redditi. Per questo scopo è stato usato nel modello Unico il quadro RW,
Più volte (per esempio, con l’Interpello n. 956-39 del 2018) l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che le valute virtuali devono essere oggetto di comunicazione all’interno del quadro RW, indicando il codice 14 (altre attività estere di natura finanziaria) nella colonna 3 (codice individuazione bene).
L’orientamento del Fisco non era totalmente innovativo, considerato che andava a ripescare alcune posizioni in dottrina, che evidenziavano come la modifica di cui al d. l.gs 90/2017 in forza dell’inserimento nel novero dei soggetti obbligati al monitoraggio degli operatori non finanziari dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, comportava di fatto l’inserimento nel quadro RW delle valute virtuali.
La modifica del d.l. 167/1990
Per i giudici amministrativi è in ogni caso dirimente il fatto che la modifica del d.l. 167/1990, operata mediante il d.l.gs 90/2017, abbia inserito in maniera esplicita le monete virtuali e il loro utilizzo nelle operazioni relative ai trasferimenti da e per l’estero che sono proprio rilevanti ai fini del relativo monitoraggio di cui all’ex art. 1 del d.l. 167/1990.
Si legge infatti nel provvedimento che:
Gli intermediari bancari e finanziari di cui all’articolo 3, comma 2, gli altri operatori finanziari di cui all’articolo 3, comma 3, lettere a) e d), e gli operatori non finanziari di cui all’articolo 3, comma 5, lettera i), del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, e successive modificazioni, che intervengono, anche attraverso movimentazione di conti,
nei trasferimenti da o verso l’estero di mezzi di pagamento di cui all’articolo 1, comma 2, lettera s), del medesimo decreto sono tenuti a trasmettere all’Agenzia delle entrate i dati di cui all’articolo 31, comma 2, del menzionato decreto, relativi alle predette operazioni, effettuate anche in valuta virtuale, di importo pari o superiore a 15.000 euro, indipendentemente dal fatto che si tratti di un’operazione unica o di più operazioni che appaiano collegate per realizzare un’operazione frazionata e limitatamente alle operazioni eseguite per conto o a favore di persone fisiche, enti non commerciali e di società semplici e associazioni equiparate ai sensi dell’articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
Ma che informazioni possiamo trarre da questo passaggio normativo? Almeno due, sostengono i giudici del tribunale amministrativo regionale.
Due profili di valutazione
Il primo profilo di valutazione, oggettivo, permette di assoggettare in modo espresso al monitoraggio sia l’uso delle valute virtuale che l’uso dei mezzi di pagamento. Il secondo profilo di valutazione, soggettivo, consente invece di rammentare come agli obblighi di monitoraggio siano tenuti sia gli operatori finanziari che gli operatori non finanziari.
Sulla base di tale assunto sembra dunque cadere l’ipotesi avanzata dalla parte ricorrente, secondo cui le valute virtuali non dovrebbero essere oggetto di dichiarazione nel quadro RW, solamente perché non sono elencate nell’art. 4 del decreto succitato.
Investimenti all’estero e criptovalute
Per i giudici amministrativi, invece, bisogna fare riferimento all’art. 1 dello stesso d.l., che definisce la nozione di investimenti all’estero e di attività estere di natura finanziaria, andando a includere anche gli investimenti e le attività effettuate con l’impianto di valute virtuali.
Cade anche la motivazione secondo cui i prestatori di servizi su moneta virtuale non siano operatori finanziari. Come abbiamo già avuto modo di rammentare, sono assoggettati agli obblighi di monitoraggio sia gli operatori finanziari che gli operatori non finanziari.
Non rileva nemmeno la tesi secondo cui le monete virtuali sarebbero mezzi di pagamento e non valute, visto che il decreto fa espresso riferimento sia alle operazioni compiute con valute virtuali, sia alle operazioni compiute con i mezzi di pagamento in quanto tali.
Per il TAR, dunque, la compilazione del quadro RW con l’indicazione delle valute virtuali:
- dipenderà o meno dalla sussistenza degli obblighi di monitoraggio e dal superamento o meno dei limiti previsti;
- è disciplinata dalle istruzioni diramate dall’Agenzia delle Entrate, che non hanno alcun carattere innovativo dell’ordinamento, bensì solo ricognitivo della modifica del regime del monitoraggio di cui al d.lgs. 90/2017.
I provvedimenti di legge
Si può dunque arrivare all’ulteriore motivo di ricorso. Le associazioni lamentano infatti che la suscettibilità delle valute virtuali a formare oggetto di imposizione fiscale debba discendere da una norma legislativa o di rango primario e, ancora:
- in ogni caso la non assimilabilità delle valute virtuali a quelle estere;
- la mancanza di elementi di territorialità nella formazione dei relativi proventi;
- la mancanza di criteri di collegamento tra dette valute ed il loro possessore – utilizzatore;
- la genericità e la indeterminatezza del relativo trattamento fiscale.
Per quanto concerne l’elemento iniziale di lamentela, i giudici ricordano come il fondamento dell’imposizione fiscale andrebbe ricondotto all’arrt. 67 del TUIR.
In tale ambito il TAR sottolinea come si sono nel tempo proposte diverse soluzioni per poter individuare a quale natura giuridica sarebbe possibile ricondurre le rappresentazioni digitali di valore. E sono gli stessi giudici a sottolineare come in realtà si sia a un livello di elaborazione ancora iniziale. Non vi è dunque un quadro consolidato e univoco. E anche da un punto di vista giurisprudenziale non sembra esserci un numero sufficiente di pronunce tali da supportare un orientamento maggioritario e ben tracciato.
Il che non significa, naturalmente, che non si possa cercare di comprendere come poter ricondurre le monete virtuali in qualche novero già esistente.
Si può per esempio procedere per esclusione. E, in tal senso, escludere la loro natura di moneta, ancorché convenzionale, poiché le valute virtuali sono ritenute non idonee ad assolvere in parte le funzioni tipiche delle unità di conto e delle riserve di valore.
Chiarito ciò, bisogna cercare di comprendere in che modo si sia evoluta la considerazione delle criptovalute per dottrina e giurisprudenza.
Criptovalute come beni immateriali
Un primo tentativo è stato quello di ricondurre le criptovalute nel novero dei beni immateriali ex art. 810 c.c., come tali suscettibili di divenire oggetto di diritti reali e obbligatori.
Per la dottrina che ha sposato con alterne convinzioni questo orientamento, ricondurre la criptovaluta come bene giuridico sarebbe una condotta simile a quanto avvenuto in altri ordinamenti. L’esempio più emblematico è quello statunitense, dove l’IRS considera la moneta virtuale tassabile come proprietà. In Canada, invece, lo scambio di moneta virtuale è trattato come se fosse una permuta.
Si è poi sviluppato un altro orientamento nella dottrina, secondo cui la valuta virtuale sarebbe piuttosto accomunabile al concetto di strumento finanziario.
Come strumento finanziario
Seguendo questo orientamento la dottrina cerca di sottolineare l’importanza che le cripotvalute possono avere come riserva di valore, che effettivamente in parte può caratterizzare la figura delle criptovalute, e che permette di attribuire a Bitcoin & co. una finalità di investimento.
Una mano di aiuto in questo senso è determinata dal fatto che la nozione di prodotto finanziario nel nostro ordinamento è molto ampia. E, come tale, è in grado di abbracciare qualsiasi tipo di strumento che può essere idoneo alla raccolta del risparmio, a patto che sia rappresentativo di un impiego di capitale.
Come mezzo di scambio
Alle intuizioni della dottrina sono poi seguiti gli interventi del legislatore, dapprima con il d.l. 90 del 2017, e poi in ambito comunitario con la direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018. Entrambi i provvedimenti sembrano invitare a considerare la moneta elettronica come un mezzo di scambio.
Peraltro, si tenga conto che con il d. lgs. 4 ottobre 2019, n. 125, che è successivo al ricorso, ma che i giudici citano comunque per poter orientare l’interpretazione, la valuta virtuale viene definita come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
Alla lettera s) dello stesso provvedimento si legge poi che i mezzi di pagamento sono ““il denaro contante, gli assegni bancari e postali, gli assegni circolari e gli altri assegni a essi assimilabili o equiparabili, i vaglia postali, gli ordini di accreditamento o di pagamento, le carte di credito e le altre carte di pagamento, le polizze assicurative trasferibili, le polizze di pegno e ogni altro strumento a disposizione che permetta di trasferire, movimentare o acquisire, anche per via telematica, fondi, valori o disponibilità finanziarie”.
Infine, alla lettera f) sono considerati “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale: ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale”.
Conclusioni
Per i giudici questi interventi normativi non possono che essere piuttosto espliciti. Rivolti, in particolar modo, a conferire un inquadramento formale alle categorie applicabili alle operazioni con le monete virtuali. Come tali, contrariamente a quanto suggerisce il ricorrente, tali spunti non possono che collocarsi in coerenza e in continuità con l’elaborazione dogmatica dell’istituto, contribuendo a rappresentare il regime ai fini del monitoraggio e della prevenzione del riciclaggio, con notevoli e inevitabili ricadute anche sotto il piano fiscale.
Da quanto sopra riportato, la nozione della moneta elettronica non può semplicemente essere quella di mezzo di scambio. Deve infatti necessariamente abbracciare anche la possibilità che attraverso il suo utilizzo possano essere effettuate delle operazioni di acquisto di beni e di servizi così come investimenti.
La qualificazione della criptovaluta diventa pertanto fondata su una definizione funzionale dell’oggetto. La sua tassazione non rileva sul solo possesso delle valute virtuali in quanto tali, ma sul loro possibile impiego e utilizzo. Ne deriva che la natura delle criptovalute diventa quella rappresentativa dei valori. Che, a loro volta, sono costituiti da utilità economiche e giuridiche come tali valutabili. E dunque pertinenti al patrimonio del soggetto titolare, espressivo di capacità contributiva.
In altre parole, proseguono i giudici nelle conclusioni, l’accoglimento di tale nozione funzionale da parte della moneta virtuale, come sopra indicato, fa sì che essa sia soggetta a tassazione non come mezzo finanziario in sé, bensì come utilizzo a diversi fini (acquisto di beni o servizi, o investimento finanziario).
Infine, deve confermarsi il metodo operativo seguito dal Fisco. Ovvero, la riconduzione dell’utilizzo della moneta elettronica entro i canoni giuridico fiscali che sono già esistenti.