Il mobbing sul lavoro – indice:
Il mobbing sul lavoro, ovvero le condotte vessatorie da parte del datore sul dipendente, possono costituire utile base per condurre a una condanna per lesioni personali, ex art. 582 c.p.
A ricordarlo è la recente sentenza n. 44890/2018 della Corte di Cassazione, che si è espressa sul caso di un datore di lavoro che ha determinato una patologia psichiatrica a un proprio lavoratore, in seguito a comportamenti vessatori e persecutori, espressioni ingiuriose, pressioni per lo svolgimento dell’attività lavorativa e continue contestazioni disciplinari.
Prescrizione del reato di lesioni personali colpose
Nei motivi della decisione, gli Ermellini rammentano innanzitutto come nel reato di lesioni personali colpose (in ambito lavorativo o meno) la prescrizione inizia a decorrere dal momento dell’evento, ovvero dal momento dell’insorgenza della malattia, anche se non ancora stabilizzata, o divenuta irreversibile o permanente.
In tal senso, appare dunque in contrasto la visione degli Ermellini con quella della Corte di merito, che faceva riferimento alla decorrenza inquadrandola come la data di cessione del rapporto di lavoro.
Una decisione che gli Ermellini affermano non essere “ancorata né ad alcuna specifica condotta ulteriormente lesiva (…) né ad alcuna specifica interferenza con il progredire della patologia psichica da cui fu colpito (il lavoratore, ndr)”.
Riscontri delle condotte lesive
I giudici si soffermano poi sulla necessità di ottenere dei riscontri delle condotte lesive. In sede processuale sono in merito emersi diversi elementi di riscontro delle dichiarazioni della persona offesa, con particolare e specifico riferimento alle documentazioni disciplinari, alle contestazioni e alle condizioni sanitarie, oltre che alcuni contributi dichiarativi forniti dai testimoni e dai consulenti di parte, che hanno chiarito l’esistenza di un disagio manifestato dal lavoratore nell’ambito dell’ambiente professionale.
Gli Ermellini sottolineano altresì che la mancata escussione di altri dipendenti della stessa impresa non rileva ai fini di una maturazione della decisività dell’assunzione di queste fonti di prova orali.
Evidenziano in tal proposito che per “prova decisiva” deve intendersi la prova che “confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante”.
Causa delle lesioni personali
I giudici della Suprema Corte passano quindi a occuparsi del nesso di causa ed effetto tra le condotte poste in essere dal datore di lavoro e le lesioni lamentate dal lavoratore.
Per far ciò, rammentano come una volta che sia stata ravvisata l’astratta riferibilità causale delle patologie psichiche (integranti la nozione di lesioni) alle condizioni cui la persona offesa era sottoposta dal datore di lavoro (come sopra anticipato: condotta della quale è stata data dimostrazione, anche per via documentale), la sentenza impugnata pone l’accento sull’assenza di una dimostrazione su ipotetici decorsi casuali alternativi, e sulla non emersione di eventuali fattori causali sopravvenuti, idonei a interrompere il nesso eziologico.
Su questo assunto, continuano i giudici di legittimità, “non riverbera effetto il mancato riconoscimento del disturbo depressivo maggiore da parte del consulente del P.M.” che ha peraltro confermato che il lavoratore era affetto da una sindrome ansiosa su base “reattiva”, che quindi non presenta andamento esclusivamente “endogeno” e che meglio si relaziona – sotto il profilo della riconducibilità causale – alle condizioni vessatorie cui il lavoratore era sottoposto dal proprio datore.
Conclusioni
Traendo le conclusioni di quanto sopra brevemente rammentato, condividiamo come – secondo gli Ermellini – una volta avuta prova della patologia, e dimostrata la astratta riferibilità della stessa alle vessazioni, e verificata ancora l’assenza della sussistenza di ipotetici decorsi causali alternativi e sopravvenuti, che fossero idonei a interrompere il nesso eziologico, deve ritenersi configurata l’ipotesi di reato di lesioni personali quale conseguenza della condotta mobbizzante tenuta dal datore di lavoro nei confronti del dipendente.
Risulta utile rammentare, come condiviso in apertura di questo approfondimento, come in tema di lesioni personali colpose (dentro o fuori il contesto lavorativo), la prescrizione inizi a decorrere dal momento dell’evento, ovvero dal momento in cui insorge la malattia, e non dal momento in cui cessa il rapporto di lavoro.