Licenziamento per rifiuto part time – guida rapida
- Licenziamento per rifiuto di accettare il part time
- Il ricorso del datore di lavoro
- L’andamento del reparto
- La finalità estorsiva del licenziamento
- Il giustificato motivo oggettivo
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 18547 dell’8 luglio 2024, ha affermato che deve ritenersi ritorsivo il licenziamento che – anche se celato da una crisi aziendale inesistente – viene intimato a seguito del rifiuto del dipendente alla trasformazione del proprio rapporto da full time a part time
Come sempre, cerchiamo di comprendere come si sia giunti a questa decisione ricostruendo le ragioni delle parti e l’evoluzione della vicenda processuale.
Licenziamento per rifiuto di accettare il part time
Il caso giunge all’attenzione della Corte di Cassazione dopo che la Corte d’appello ha accolto l’appello principale avanzato da un lavoratore licenziato per aver rifiutato di accettare il part time, ordinando alla società datore di lavoro di reintegrare il dipendente nel suo posto di lavoro e di risarcirgli il danno pari ad una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino al giorno dell’effettiva reintegrazione, oltre accessori e contributi previdenziali e spese.
Nella sua sentenza la Corte d’appello ha ritenuto che non soltanto il licenziamento difettasse del motivo oggettivo addotto, sia sotto il profilo del dedotto costante andamento negativo del reparto dove lavorava il lavoratore, sia dell’impossibilità del repechage. Ma, altresì, che la manifesta insussistenza del motivo oggettivo rivelasse l’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento in oggetto, in ragione del concorso con gli ulteriori elementi presuntivi che erano stati acquisiti al giudizio: a partire dalla contiguità temporale del licenziamento rispetto al rifiuto che il dipendente aveva opposto alla trasformazione del suo rapporto di lavoro in un rapporto di lavoro part-time ed alla iniziativa disciplinare che ne era conseguita da parte del datore di lavoro.
Il ricorso da parte del datore di lavoro conduce la vicenda in Cassazione.
Il ricorso del datore di lavoro
Il datore di lavoro lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 41 Costituzione, dell’art. 115 c.p.c. e degli artt. 3 e 5 legge n. 604/1966, vizio di motivazione e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’articolo 360, numeri 3 e 5 c.p.c., posto che la Corte d’appello avrebbe errato nell’esame dei fatti e nell’interpretazione giurisprudenziale in tema di g.m.o., avrebbe travalicato i limiti posti al sindacato giudiziale sulle scelte datoriali entrando nel merito di tali scelte, e non sarebbe riuscita ad effettuare una corretta analisi dei dati che sono stati offerti dalle parti con conseguente omesso esame e/o travisamento delle prove e violazione dell’articolo 115. c.p.c.
Il datore sottolinea come l’analisi di tutti i reparti evidenziava come i ricavi del reparto in cui era impiegato il dipendente licenziato non erano tali da supportare i costi costituiti dai due dipendenti assunti a tempo pieno. Gli altri reparti avevano invece un numero di clienti praticamente doppio ciascuno, senza la necessità della contestuale presenza di due addetti in contemporanea (cioè full time).
Il datore lamenta inoltre come la Corte d’appello non avesse neppure considerato gli ulteriori documenti depositati. Tra di essi, in particolare, quelli che dimostravano che la società avesse assunto con contratto a tempo determinato e part time una lavoratrice che poi si era dimessa, ed a seguito delle dimissioni ha fatto ricorso al lavoro occasionale attraverso voucher.
L’andamento del reparto
Per i giudici di legittimità, il motivo di ricorso è totalmente di merito rispetto ai fatti di causa, considerato che attiene la selezione e la valutazione delle prove. È dunque dichiarato inammissibile alla luce del corretto e motivato accertamento effettuato dalla Corte di appello in conformità alle regole processuali e sostanziali dettate in materia dall’ordinamento.
Peraltro, proseguono i giudici, il motivo di ricorso non si limita neppure a denunciare l’omessa valutazione di un fatto storico. Deduce invece come vizio la generale valutazione dei vari elementi di prova operata dalla Corte di appello per aver la stessa affermato che non esistesse alcuna crisi, ossia l’asserito costante andamento negativo del reparto in cui era impiegato il dipendente licenziato, posto formalmente a fondamento del recesso.
A tale scopo, la Corte di merito ha analizzato i dati di bilancio deducendo non solo la mancanza della crisi addotta, bensì la crescita costante del fatturato. La Corte ha accertato che l’analisi mensile dell’andamento dei reparti non offriva dimostrazione del trend negativo del reparto di macelleria, bensì al contrario lo confutava.
Mettendo infatti a raffronto gli importi di quel reparto dei mesi di marzo-aprile con quelli dei mesi di settembre-ottobre, si è scorto un trend in crescita, e lo stesso si può rilevare analizzando il numero dei clienti.
Gli accertamenti di fatto
Considerano i giudici come gli accertamenti di fatto non sono sindacabili in sede di legittimità oltre i limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014.
Si ribadisce inoltre come la violazione dell’art. 115 c.p.c. possa essere dedotta come vizio di legittimità se il giudice, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbi esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza, ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale.
La finalità estorsiva del licenziamento per il part time
Si passa così al secondo motivo di ricorso, che prospetta la violazione e/o la falsa applicazione del decreto legislativo n. 23/2015 e del decreto legislativo n. 81/2015 – in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c. – per avere la Corte di appello ritenuto provata la esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento e accordato al lavoratore la tutela reintegratoria a seguito del rifiuto del part time.
In particolare, sostiene il dipendente licenziato come nel sistema delineato dalla riforma del Jobs act nel 2015 con il D.Lgs. 81 (art. 2, comma 1) la reintegra è considerata come la sanzione applicabile solo quando il licenziamento sia discriminatorio o negli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, tra i quali non rientra il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time, pure disciplinato dall’art. 8 comma del D.Lgs. n. 81/2015 il quale prevede appunto che
il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
La norma non nomina, tanto meno espressamente, alcuna sanzione di nullità.
Perché il motivo è infondato
Anche in questo caso i giudici di legittimità affermano come il motivo sia infondato e debba essere disatteso.
Si ribadisce infatti come il lavoratore sia stato formalmente licenziato per g.m.o. per crisi aziendale e non per l’esigenza di trasformazione del contratto full time in part time.
Peraltro, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza, il motivo addotto a sostegno del recesso non faceva riferimento, nemmeno tacito o indiretto, alle esigenze di trasformazione del rapporto di lavoro sotto il profilo dell’orario (né, ovviamente, al rifiuto del part time).
La Corte d’appello non ha dichiarato la nullità per essere stato il licenziamento intimato in ragione dell’esigenza di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno del lavoratore in rapporto a tempo parziale, ai sensi dell’articolo 8,1 comma del decreto legislativo n. 81/2015; la cui richiamata disciplina quindi non rileva affatto.
Ha invece affermato come il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimato per crisi aziendale, fosse non solo ingiustificato, bensì anche ritorsivo, considerato c he esso traeva la propria esclusiva e determinante ragione nel rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto, come si evinceva dagli elementi di fatto messi in rilievo (la prossimità col rifiuto di trasformazione del contratto, la conseguente iniziativa disciplinare intrapresa dalla datrice di lavoro).
La differenza tra le due fattispecie
Diventa così chiara la differenza tra le due diverse fattispecie:
Licenziamento per esigenza di trasformazione del part time in full time | Licenziamento intimato a seguito di rifiuto del part time |
Va ritenuto ingiustificato perché adottato in violazione dell’art. 8,1 comma D.Lgs. 81/2015. | Anche se ammantato da altre ragioni come il g.m.o. (per asserita crisi aziendale insussistente), deve essere ritenuto ritorsivo, poiché mosso dal solo determinante fine di eludere il divieto di cui all’art. 8 D.Lgs. 81/2015 mediante una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta. |
Non è dunque violata dalla Corte di appello la normativa del decreto legislativo n. 81 del 2015 e nemmeno l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 23 del 2015, perché la Corte di appello non ha sanzionato con la nullità un licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time (in quanto tale ingiustificato). Bensì, un licenziamento per g.m.o. motivato da inesistenti e strumentali ragioni riferite a una crisi aziendale, cui era sotteso l’intento di reagire al legittimo rifiuto del part time.
Il profilo sanzionatorio
Per quanto attiene poi il profilo sanzionatorio, deve considerarsi come il licenziamento ritorsivo è un licenziamento nullo perché illecito, siccome deriva dalla disciplina testuale con la conseguenza che poteva essere anche ricondotto ad un caso di nullità espressamente previsto dalla legge ai sensi dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 23 del 2015.
Per i giudici di legittimità, ogni residuo dubbio in proposito è oggi destinato ad essere fugato definitivamente, considerato che la norma del jobs act è stata di recente dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 22/2024) per violazione della legge delega proprio limitatamente alla parola “espressamente“.
Alla luce di quanto sopra, proprio grazie alla recente pronuncia della Consulta, il licenziamento per motivo ritorsivo certamente rientra oggi tra i casi di nullità del licenziamento che conducono alla tutela reintegratoria piena, come peraltro accadeva in precedenza e accade ancora per i casi di “vecchi lavoratori” assunti cioè nel vigore della disciplina dell’art. 18 l. n. 300/70, come modificato dalla Legge c.d. Fornero n. 92/2012.
Il giustificato motivo oggettivo e il part time
Vi è poi un terzo e ultimo motivo di ricorso, con cui il datore di lavoro deduce la violazione o falsa applicazione dell’articolo 115 e degli articoli 2697 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. Secondo il datore di lavoro, infatti, la Corte d’appello era giunta al licenziamento ritorsivo facendo ricorso sia alla declaratoria di insussistenza del giustificato motivo oggettivo, sia ad alcuni elementi presuntivi individuati come:
- la contiguità temporale del licenziamento rispetto al rifiuto del dipendente di accettare la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale;
- l’iniziativa sanzionatoria collegata a tale rifiuto (il datore aveva infatti proceduto ad una contestazione disciplinare a cui non è seguita alcuna sanzione);
- la contraddittorietà delle scelte imprenditoriali;
- la mancata dimostrazione che la preventiva offerta del part-time sia stata rivolta al lavoratore in alternativa al licenziamento.
Inoltre, il datore di lavoro afferma che contrariamente a quanto dichiarato dalla Corte non era vero che non avesse informato il proprio dipendente che dato l’andamento economico del reparto tale da imporne il ridimensionamento per conservare il posto di lavoro era necessario che egli accettasse una riduzione dell’orario di lavoro.
Il motivo è però ritenuto inammissibile, perché censura in realtà il risultato del ragionamento presuntivo, ma non la violazione delle regole e dei presupposti normativi a monte.
Ad ogni modo, per i giudici di legittimità non rileva neppure il fatto che la società avesse informato in precedenza il lavoratore che la proposta di part time fosse alternativa ad un possibile licenziamento, considerato che la motivazione del licenziamento né prescinde totalmente ed adduce non la necessità di procedere alla riduzione dell’orario in mancanza di alternative, ma un costante andamento negativo del reparto macelleria che è stato accertato come insussistente.
I principi di diritto
Il ricorso è dunque respinto. Sono enunciati i seguenti principi di diritto:
Il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell’art. 8,1 comma D.Lgs. 81/2015; mentre il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all’art. 8 D.Lgs. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta.
Al licenziamento ritorsivo, in quanto riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell’art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria stabilita dall’art. 2 del D.Lgs. n. 23 del 2015 dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 22/2024 della Corte Costituzionale.