Obbligo di repechage, i requisiti da rispettare – guida rapida
- L’impugnazione del licenziamento
- L’onere della prova del repechage
- Il licenziamento in violazione dell’art. 3 l. 604/1996
Con l’ordinanza n. 18904 del 10 luglio 2024, la Cassazione ha affermato che non è assolto l’obbligo di repechage ove, all’atto di licenziamento per giustifico motivo oggettivo (g.m.o.) risultino esistenti nell’organico aziendale delle mansioni inferiori, anche a termine, e il datore di lavoro non ha effettuato alcuna offerta di demansionamento al lavoratore, né allegato e provato in giudizio che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per espletare le stesse mansioni.
Come sempre abbiamo l’abitudine di fare, occupiamoci del caso ricostruendo il processo e le motivazioni dell’ordinanza.
L’impugnazione del licenziamento per obbligo di repechage
La Corte di Appello ha rigettato il reclamo proposto da un lavoratore contro la sentenza che aveva respinto la sua domanda di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Contro la sentenza, ha proposto ricorso per Cassazione, articolato in sette motivi. Ha resistito la società datore di lavoro, con controricorso.
I motivi di licenziamento
I primi due motivi possono sono affrontati congiuntamente e riguardano sostanzialmente la comunicazione dei motivi di licenziamento.
Il ricorrente ricorda che la Corte territoriale aveva affermato come il dipendente avesse contestato ciò che correttamente è stato affermato in proposito dal primo giudice, ovvero che
la semplice lettura della comunicazione dell’11.6.2018 di avvio del procedimento ex articolo 7 fa comprendere che la resistente ha addotto come causa giustificativa del licenziamento – sinteticamente ma non genericamente – la cessazione della sede lavorativa ove il ricorrente prestava la sua attività (che era il capannone locato per sviluppare il settore composito) e l’impossibilità di una sua ricollocazione all’interno dell’azienda.
Nel tentativo di conciliazione, si legge, la resistente non aveva mutato le motivazioni del recesso. Aveva invece solo indicato un dato che poteva già dirsi implicito in precedente comunicazione, ovvero che la chiusura della sede di assegnazione dell’attore comportasse inevitabilmente la soppressione delle mansioni dallo stesso svolte.
Per il ricorrente, non vi era stato il denunciato mutamento di ragioni tecniche, organizzative e produttive indicate nella precedente comunicazione, rispetto a quelle addotte in sede di tentativo di conciliazione.
Non si è giunto a diversa conclusione con la valorizzazione della circostanza che, nel corso della prima fase di giudizio, la società avesse affermato come il licenziamento in contestazione fosse conseguente alla chiusura del reparto specifico, a cui il ricorrente era stato assegnato in via esclusiva.
La specificazione della sede lavorativa
L’unica novità contenuta nell’ultima dichiarazione era dunque rappresentata dalla specificazione della sede lavorativa in cui il lavoratore prestava la propria attività.
Il lavoratore ha contestato nel merito tali tesi, ma si tratta di censure inammissibili, poiché tendenti a inficiare la logica e motivata interpretazione degli atti della procedura di licenziamento effettuata da entrambi i giudici di merito in modo conforme alla legge. E che, comunque, non è sindacabile da parte della Corte di Cassazione, alla stregua della differente soluzione opposta dal ricorrente senza nemmeno prospettare la violazione dei criteri ermeneutici negoziali, applicabili anche agli atti unilaterali.
Il valore probatorio della documentazione in atti
Con il terzo motivo, il ricorrente sostiene la violazione degli artt. 116 e ss. c.p.c. e degli artt. 2702 e 2712 c.c. in relazione al valore probatorio che è attribuito alla documentazione versata in atti dal ricorrente, oltre che alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. con riferimento alle valutazioni delle risultanze istruttorie.
Per i giudici della Suprema Corte sarebbe tuttavia motivo inammissibile, con cui vengono dichiaratamente criticati gli accertamenti e le valutazioni delle testimonianze effettuate dalla Corte in materia di mansioni svolte, ruolo e qualifica del lavoratore, che sono state all’uopo richiamate e trascritte in sede di ricorso.
La Corte di legittimità, si ricorda, non può sostituirsi al giudice di appello e, dunque, ritenere che il lavoratore svolgesse un certo tipo di mansioni o rivestisse un determinato ruolo differente da quello dichiarato dai primi giudici. Dunque, non può ripetere le valutazioni delle circostanze di fatto o ancora riesaminare il materiale probatorio o il contenuto degli atti di causa già valutati in modo motivato dalla Corte d’appello.
Insomma, fatta salva l’omessa valutazione di un fatto decisivo – che non è ricorso nel caso in esame – il potere di selezionare e valutare le prove idonee ai fini della dimostrazione del fatto appartiene al giudice di merito e non può essere sindacato in sede di legittimità.
La collocazione del lavoratore
Con il quarto motivo di ricorso il lavoratore denuncia l’omessa pronuncia sulla doglianza espressa dal ricorrente per violazione degli artt. 214, 215 e 216 c.p.c. alla luce dell’inesistenza assoluta di ogni documento che comprova l’esclusiva e/o prevalente collocazione del ricorrente presso il reparto di produzione compositi.
Anche questo motivo è inammissibile nella parte in cui le censure sollevate dal ricorrente criticano le valutazioni delle prove. È infondato, invece, dove postula la necessità della prova documentale per comprovare le mansioni effettivamente svolte da un lavoratore, che non è invece richiesta dall’ordinamento.
L’omesso esame di un fatto decisivo
Si giunge così al quinto motivo, con cui si sostiene l’omesso esame circa un fatto decisivo per risolvere la controversia. Fatto che, in questa fattispecie, è costituito dalla prevalenza delle mansioni svolte dal lavoratore nel reparto specifico e/o dall’effettiva durata, operatività e esistenza presso il datore di lavoro, di tale attività produttiva.
Anche in questo caso il motivo è ritenuto inammissibile, posto che il ricorrente denuncia l’esistenza del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. in un’ipotesi preclusa dalla ricorrenza di una doppia conforme, senza indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse.
L’assolvimento dell’onere di repechage
Arriviamo così al motivo di maggiore interesse in questa sede di commento, con cui si sostiene la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 7 della l. 605/66, violazione dei principi normativi e/o giurisprudenziali attenenti all’onere della prova e/o al mancato assolvimento dell’onere di repechage.
La Corte di appello, si legge ancora nell’ordinanza, aveva sbagliato ad affermare che esiste un onere di allegazione dei posti disponibili a carico del lavoratore
senza l’assolvimento del quale neppure sorgerebbe l’onere della prova del datore.
Doveva inoltre ritenersi processualmente accertata la possibilità di una ricollocazione del lavoratore presso il datore di lavoro, anche con mansioni inferiori, posto che lo stesso amministratore legale rappresentate della società datrice di lavoro aveva ammesso nel corso del libero interrogatorio, in modo espresso e spontaneo, che c’era la possibilità di ricollocare il ricorrente con mansioni operaie.
L’ipotesi, però, non era mai stata concretamente prospettata al lavoratore che, infatti, afferma di non avere mai ricevuto alcuna proposta in tal senso dal datore.
La Corte di appello, invece, avrebbe valorizzato ai fini dell’impossibilita dell’assolvimento dell’onere della prova la mancata assunzione di personale a tempo indeterminato dopo le comunicazioni al lavoratore.
Aveva inoltre affermato che non potesse valorizzarsi quanto riferito dal legale rappresentante nell’interrogatorio libero: difettava infatti a monte tra le allegazioni di parte ricorrente una idonea allegazione in ordine alla possibilità di essere adibito ad altre mansioni, rilevando inoltre la tardività della relativa doglianza siccome non formulata nella prima difesa successiva a tale pretesa ammissione di controparte ma solo nel ricorso in opposizione ex articolo 1, commi 51 seguenti legge n. 92 del 2012.
La fondatezza del motivo
Oltre all’errore sulla necessita di una allegazione specifica, inoltre, non risponde al vero nemmeno il rilievo circa la tardività della doglianza. Di fatti, il lavoratore aveva sollevato la questione anche nelle note conclusionali depositate presso il tribunale nel procedimento sommario.
Per i giudici di legittimità, il motivo è fondato.
In tema di repechage, la Corte di appello ha affermato che il giudice di prime cure avesse correttamente valorizzato
quanto risultante dalla documentazione in atti ossia che la società non avesse assunto personale a tempo indeterminato, tantomeno con qualifica impiegatizia dopo il gennaio 2018. Di contro, nell’anno 2018, sono cessati i rapporti lavorativi di (…) Le uniche assunzioni sono state effettuate con contratti a termine, per la sostituzione di operai (non impiegati) in ferie o malattia (…) difettando a monte una idonea allegazione del ricorrente in ordine alla possibilità di essere adibito ad altre mansioni (per di più inferiori e di natura operaia, laddove lo stesso era pacificamente un impiegato di alto livello); rilevando altresì la tardività della relativa doglianza, siccome non formulata nella prima difesa successiva a tale pretesa ammissione di controparte ma solo nel ricorso in opposizione.
Per i giudici di legittimità le tesi sostenute dalla Corte territoriale in materia di repechage non sono conformi all’ordinamento. Gli stessi accertamenti non rilevano e non soddisfano l’obbligo del repechage che si pone a monte con riferimento, anzitutto, all’organizzazione aziendale esistente al momento del licenziamento.
L’onere della prova del repechage
In primo luogo, ricordano i giudici della Suprema Corte, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di merito, l’onere della prova in materia di repechage è a carico del datore di lavoro, mentre sul lavoratore non grava alcun onere, neppure di allegazione.
In secondo luogo, l’onere della prova del datore è esteso anche alle mansioni inferiori, sicché egli è tenuto a provare che al momento del licenziamento non esista nessuna altra posizione lavorativa in cui possa utilmente ricollocarsi il licenziando, tenuto conto della organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento.
Si deve pertanto escludere che possa rilevare il momento processuale in cui il ricorrente specifichi la sua doglianza in proposito, trattandosi di una mera difesa non soggetta a preclusioni di sorta.
Ancora, deve essere rilevato come nel giudizio era emerso dalle dichiarazioni del legale rappresentante che al momento del licenziamento esistevano collocazioni alternative in mansioni inferiori. Nell’atto di licenziare era stato invece detto espressamente il contrario.
A fronte dell’esistenza di mansioni inferiori il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, deve offrire la mansione alternativa anche inferiore al lavoratore, prospettandone il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore.
Se mancano queste condizioni, per sottrarsi all’annullamento del licenziamento il datore deve allegare e provare, sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili ed avuto riguardo alla specifica condizione ed alla intera storia professionale di un ben individuato lavoratore, che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni.
In questa fattispecie il datore non l’ha fatto, né ha allegato e provato perché non l’ha fatto.
Il licenziamento in violazione dell’art. 3 l. 604/1996
Ciò che invece è determinante è che il lavoratore sia stato licenziato in violazione dell’articolo 3 legge 604/1966, pur essendovi all’atto del recesso delle posizioni di lavoro alternative ancorché in mansioni inferiori (anche a tempo determinato) e non sia stata effettuata alcuna offerta di lavoro (né a tempo indeterminato, né a tempo determinato) per la ricollocazione in queste mansioni.
La sentenza impugnata è dunque cassata in relazione al motivo di cui sopra, con rimessione al giudice di rinvio indicato in dispositivo, che dovrà procedere conformandosi al seguente principio di diritto:
Non risulta assolto l’obbligo di repechage ove all’atto di licenziamento per gmo risultino esistenti nell’organico aziendale mansioni inferiori, anche a termine, ed il datore non abbia effettuato alcuna offerta di demansionamento al lavoratore né comunque allegato e provato in giudizio che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni.