Gli elementi che configurano il reato di mobbing – guida rapida
Con ordinanza n. 32018 del 28 ottobre 2022 la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema del mobbing indicando quali elementi servono per configurare l’ipotesi di reato.
Cerchiamo di ricostruire la vicenda in esame e quali sono state le valutazioni dei giudici della Suprema Corte.
I fatti sul reato di mobbing
L’ordinanza si pronuncia sul ricorso di un dipendente comunale che dichiarava di aver svolto importanti mansioni nel dipartimento di Edilizia Privata dell’amministrazione. Con un provvedimento sindacale del 28 marzo 2003, il dipendente era stato trasferito all’ufficio Affari finanziari.
Per il ricorrente, il comportamento della P.A. era determinato dal fatto che era stato rinviato a giudizio con l’accusa di concussione, reato dal quale era stato però assolto. Il dipendente era dunque stato vittima di una serie di atti discriminatori e dal 23 giugno 2005 era stato trasferito presso la biblioteca comunale.
Sulla base di tale demansionamento, il dipendente aveva proposto ricorso al quale era conseguita una condotta intimidatoria della P.A. In ultimo, con atto del maggio 2006, il ricorrente era stato trasferito ai Servizi sanitari, zootecnia ed agricoltura. Complessivamente, giudicava di aver subito un gravedemansionamento e si era trovato ad essere inattivo sul lavoro.
Insomma, il ricorrente ritiene di essere stato vittima di mobbing e per questo motivo ha domandato la condanna del Comune a risarcire i danni a lui causati, sub specie di danno biologico, esistenziale e morale.
Il Tribunale nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 63 del 2011, ha accolto in parte il ricorso, condannando il Comune a risarcire il danno alla salute inflitto al ricorrente. A sua volta Il Comune ha proposto appello che la Corte d’appello, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 368 del 2017, ha rigettato. Ha infine proposto ricorso in Cassazione.
L’inammissibilità del ricorso
In introduzione preliminare della decisione, la Suprema Corte ha respinto l’eccezione di inammissibilità del ricorso avanzata dal controricorrente. Ricordiamo che il dipendente aveva sostenuto che, con la presentazione di detto ricorso, sarebbe stato violato lo Statuto Comunale nella parte ove prevede, all’art. 27, lett. h), che la resistenza in giudizio debba essere proposta dal responsabile del servizio competente in materia.
Per la Corte, di fatti, lo stesso Statuto attribuisce la rappresentanza in giudizio al Sindaco e l’intervento del citato Responsabile del servizio costituisce solo un momento interno del procedimento amministrativo.
La condotta per il reato di mobbing
Si procede così con l’esame del primo motivo del ricorso, con cui il Comune lamenta la violazione degli artt. 1218, 2087 e 2697 c.c. sostenendo che la corte territoriale avrebbe errato nell’affermare l’esistenza di una condotta riconducibile al mobbing, anche in virtù dell’assenza in prova di intenti persecutori.
Per la Corte di Cassazione tale doglianza è però infondata.
Per configurare una ipotesi di mobbing, infatti, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime. È a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.
Per la precedente sentenza Cass. n. 17698 del 6 agosto 2014, infatti, affinché sia integrata la fattispecie del mobbing lavorativo è necessario che ricorrano:
- una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
- l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
- il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
- l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Le motivazioni della Corte territoriale
Ora, nella fattispecie in esame, la Corte territoriale aveva già motivato in maniera non censurabile in sede di legittimità, accertando la presenza di tutti i requisiti esposti nell’elenco di cui sopra.
In particolare, si legge nelle motivazioni, il Comune “aveva adottato una serie di condotte sostanzialmente punitive, mascherandole quali atti organizzativi che però nella realtà dei fatti non avevano alcuna giustificazione e apparivano evidentemente irrazionali” e non appariva plausibile alcuna giustificazione della condotta del Comune “se non una volontà di emarginare il lavoratore”.
Dunque, per la Corte d’appello il “complessivo comportamento datoriale di per sé costituisce una fattispecie vessatoria nei confronti del lavoratore”.
Ne deriva, prosegue la Corte di legittimità, che vi è stato un accertamento dell’intento persecutorio del datore di lavoro, che aveva unificato una serie di condotte ostili reiterate, alcune delle quali integranti un demansionamento e altre no, tenute sul luogo di lavoro e protrattesi, con frequenti cambiamenti di ufficio, per un congruo periodo di tempo.
Insomma, l’azione del Comune è stata ritenuta del tutto in contrasto con il principio di buona fede ed espressione di una volontà punitiva, il cui obiettivo era quello di isolare il lavoratore e lasciarlo sostanzialmente inattivo.
L’aggravamento della patologia
Con il secondo motivo la parte ricorrente censura la violazione degli artt. 1218, 1223 e 1225 c.c., nonché artt. 40 e 41 c.p., perché la corte territoriale non avrebbe adeguatamente considerato che, come peraltro emerso dalla CTU disposta in appello, il dipendente versava in un ostato premorboso, in ragione del quale la condotta del Comune avrebbe generato solamente un aggravamento ulteriore della patologia già in atto.
In aggiunta a ciò, ad avviso del Comune si sarebbe dovuto tenere conto del procedimento pensale che aveva visto coinvolto il dipendente.
La doglianza viene ritenuta anche in questo caso infondata. La Corte di Cassazione sottolinea come quella d’appello abbia già esaminato le risultanze di tutte le CTU disposte in corso di causa e abbia motivato in modo approfondito le conclusioni cui è giunta.
Per quanto poi concerne l’incidenza del procedimento penale a cui il dipendente era stato sottoposto, sulla salute di quest’ultimo, il giudice del merito, in accordo con l’ultima CTU (collegiale), ha affermato come le relative vicende non abbiano inciso sul danno attuale, ma solamente sulla personalità premorbosa del soggetto, rendendolo così più predisposto a sviluppare una patologia.
Il richiamo al principio di diritto
Per quanto infine riguarda la riduzione dell’ammontare del danno biologico prospettato dall’ultima CTU, la Suprema corte osserva che la Corte d’appello abbia correttamente applicato il principio di diritto già espresso da Cass., Sez. 3, n. 15991 del 21 luglio 2011, che qui si riassume:
In materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale;
qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.
Ne consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo “con-causale” di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio “semplificato”, tale da condurre “ipso facto” ad un frazionamento delle responsabilità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del “quantum” risarcitorio”.
In particolare, nella specie, come accertato dalla corte territoriale, lo stato premorboso del dipendente non ha avuto incidenza causale sulla patologia invalidante oggetto del contendere. Il comportamento del Comune è stato dunque la causa necessaria del danno biologico, con la conseguenza che l’entità del risarcimento non può essere ridotta in ragione della semplice sussistenza della condizione di fragilità particolare del dipendente.
Il ricorso è dunque rigettato.