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Home » Commerciale » Lavoro » Tempo divisa, la Cassazione afferma che deve essere retribuito

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Tempo divisa, la Cassazione afferma che deve essere retribuito

Avv. Beatrice Bellato consulenzalegaleitalia.it Tempo divisa, la Cassazione afferma che deve essere retribuito
tempo-divisa
Avv. Beatrice Bellato

Il tempo divisa, necessario per vestire e svestire gli abiti da lavoro? Secondo la Corte di Cassazione non vi sono dubbi: deve essere correttamente retribuito ai lavoratori, con la sentenza n. 9417 dello scorso 17 aprile 2018 che dunque si inserisce – e contribuisce a rafforzare – un consolidato orientamento sviluppatosi in modo crescente negli ultimi anni.

Il tempo divisa e gli obblighi per il lavoratore

Prima di comprendere per quali motivi si sia arrivati a una simile pronuncia da parte della Suprema Corte, giova certamente riassumere – pur in modo rapido – quali siano stati i precedenti passi.

Il caso giunge infatti sulle scrivanie della Suprema Corte dopo il ricorso proposto dal datore di lavoro contro sentenza n. 9007/2012 della Corte d’Appello di Roma, che aveva accolto la precedente domanda dei dipendenti, che avevano richiesto che fossero riconosciuti come facenti parte dell’orario di lavoro retribuito i tempi necessari alla vestizione e alla svestizione degli abiti necessari per la prestazione di lavoro, quali addetti alle mense. Con tale pronuncia, la Corte d’Appello si soffermava tra l’altro sull’obbligatorietà della vestizione degli indumenti da lavoro, e sull’impossibilità di poterli indossare e dismettere a casa.

Con il ricorso, il datore di lavoro sostiene l’erroneità della sentenza impugnata, per non avere escluso la sussistenza di elementi di “eterodirezione datoriale rispetto alla vestizione”, omettendo in particolar modo di aver valorizzare correttamente il fatto che – trattandosi di indumenti resi necessari dall’interferire del lavoro con gli alimenti – l’obbligo di indossarli gravava direttamente sul lavoratore, e che questa vestizione e svestizione si attuavano in un luogo (gli spogliatoi di un cliente finale), che non era sotto diretto controllo del datore di lavoro.

Ne conseguiva, secondo la tesi del datore, che la volontà di quest’ultimo si manifestava come irrilevante, e che gli indumenti costituivano una mera condizione soggettiva per la legittima offerta della prestazione da parte del lavoratore.

La retribuzione del tempo divisa

Per la Cassazione, tuttavia, il motivo di ricorso non può che essere infondato, poiché il gravare dell’obbligo di vestizione di alcuni indumenti di lavoro sul lavoratore, non esclude l’obbligo del datore di imporre e controllare che l’uso sia effettivo.

Per gli Ermellini, infatti, l’assenza per il lavoratore della libertà di scelta sui tempi e sui luoghi in cui indossare gli indumenti necessari non può consentire di ritenere questa operazione come “relativa agli atti di diligenza meramente preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa”, imponendo proprio per la mancanza di discrezionalità, che il tempo necessario per il suo compimento debba essere retribuito.

Nelle sue motivazioni, la Corte rammenta come la legge per poter individuare un orario di lavoro ritenga necessario e sufficiente che il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro, e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni. In tale prospettiva, aggiungono gli Ermellini, è ininfluente il fatto che il lavoratore sia obbligato dalla normativa a indossare certi indumenti, poiché questo non esclude la possibile mancanza di una sua discrezionalità nello scegliere quando e dove operare la vestizione.

A sua volta, questa mancanza di discrezionalità comporta che il lavoratore sia – appunto – “a disposizione del datore di lavoro” in questi frangenti di vestizione e svestizione della tuta. Con l’occasione, i giudici richiamano alla mente la pronuncia della stessa Cassazione del 26 gennaio 2016, n. 1352, laddove sottolineano come

la eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, può derivare non solo dall’esplicita disciplina d’impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare, o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione

in modo tale che possono

determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni di igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro.

Anche da questo punto di vista, concludono poi i giudici, ricorrono i presupposti per il riconoscimento del rientrare della vestizione in orario di lavoro, considerato che è improponibile che si indossino cuffie, camice e cappellino di contenimento dei capelli, nel tragitto verso il lavoro. La stessa Corte d’Appello, nella pronuncia contestata dal datore di lavoro, aveva già accertato la sussistenza del vincolo quanto a tempo e luoghi, in quanto per ragioni sanitarie gli indumenti dovevano essere indossati con contiguità locale e temporale rispetto all’attività di lavoro presso la mensa, onde evitare la contaminazione con “polveri, agenti atmosferici, sporcizia ed altro, come ragionevolmente si verificherebbe qualora fosse permesso a dipendenti di indossare gli stessi a casa e per tutto il tragitto sino al luogo di lavoro”.

Avv. Bellato – diritto civile e contrattuale

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