Il dipendente che lavora durante il periodo malattia non agisce in maniera tale da determinante, sempre e comunque, un legittimo provvedimento di licenziamento. A patto che, si intende, lo stesso lavoratore agisca comunque nel rispetto dei doveri generali di correttezza e di buona fede, e degli obblighi contrattuali di diligenza e di fedeltà. A stabilirlo è la Corte di Cassazione, sez. lavoro, con la rencente pronuncia n. 27333/2017 dello scorso novembre, che si è occupata proprio del caso di un uomo che era stato licenziato dal proprio datore di lavoro poiché durante il periodo di assenza per malattia aveva svolto un’attività lavorativa considerata analoga a quella eseguita in esecuzione del rapporto di lavoro in un proprio locale, attiguo alla propria abitazione.
Mentre il licenziamento era stato inizialmente considerato legittimo, la Corte d’Appello ha poi scelto di riformare parzialmente la sentenza di primo grado, accogliendo la domanda del lavoratore avente come oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli per aver svolto, durante un periodo di assenza per malattia, attività lavorativa corrispondente a quella eseguita quale lavoratore dipendente (lavori di meccanica) in un proprio locale appunto alla propria abitazione.
La sentenza della Corte d’Appello disponeva inoltre la reintegrazione del lavoratore e disponeva in suo favore la condanna a titolo di risarcimento danni delle retribuzioni maturate e maturande dal licenziamento alla reintegra. La decisione della Corte territoriale si fonda principalmente sull’aver ritenuto il limitato impegno lavorativo del dipendente non suscettibile di influire in senso pregiudizievole sul decorso della malattia sofferta e sulle necessità terapeutiche.
Dinanzi a tale sentenza, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.
Violazione degli obblighi di correttezza e di buona fede e lavoro durante la malattia
Nel ricorso, il datore di lavoro denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1175,1375,2104 e 2119 c.c., imputando in occasione alla Corte territoriale di non aver valutato correttamente il comportamento del lavoratore sotto il profilo dell’osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede, in relazione all’asserita inosservanza delle prescrizioni mediche.
In aggiunta a ciò, il datore di lavoro porta in Cassazione come secondo motivo quello del vizio di omesso esame di un fatto controverso decisivo per il giudizio, che sarebbe rappresentato dall’identità dell’attività lavorativa svolta durante la malattia con quella oggetto della prestazione resa alla società tale da indurre a dubitare della sussistenza e, comunque, dell’effetto invalidante della malattia lamentata.
Dinanzi a tali ricorsi, gli Ermellini hanno trattato congiuntamente i due motivi presentati singolarmente dal ricorrente, evidenziando come siano del tutto palesemente infondati e, dunque, confermando quanto già valutato nel precedente grado dalla Corte territoriale, che prendendo spunto dal principio peraltro già formulato dalla stessa Cassazione nel suo orientamento prevalente giurisprudenziale, ha asserito che il comportamento del dipendente che presta attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia può costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro solamente se esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà,
configurabile allorchè il comportamento medesimo sia di per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando una sua fraudolenta simulazione o quando, valutato in relazione alla natura ed alle caratteristiche dell’infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione ed il rientro in servizio del lavoratore, con violazione dell’obbligazione preparatoria e strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto, ha disatteso la tesi della Società ricorrente circa la ravvisabilità nella specie di simili evenienze sulla base di un iter valutativo da ritenersi immune da vizi logici e giuridici, per essere l’esclusione, tanto della fraudolenta simulazione, quanto del pregiudizio alla tempestiva ripresa del servizio, fondata sul dato, ammesso dalla stessa Società ricorrente, della marginalità dell’impegno lavorativo, indubbiamente, da un lato, inidoneo a fondare la presunzione dell’inesistenza dell’infermità, del resto accertata in sede di CTU e, dall’altro, tale da rendere il comportamento stesso compatibile con la prescrizione medica del riposo.
Traendo le debite somme da quanto sopra rammentano i giudici della Suprema Corte, si può dunque cercare di formulare una considerazione di massima che potrebbe rafforzare l’orientamento giurisprudenziale peraltro già avviato a suo tempo dagli stessi Ermellini.
Di fatti, nel confermare l’illegittimità del licenziamento e, dunque, ribadire la correttezza del comportamento della Corte territoriale e dai giudici di merito, la Corte di Cassazione ha precisato che lo svolgimento di un’attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia, costituisce un giustificato motivo di recesso solamente in due ipotesi:
- se il comportamento che è stato posto in essere dal lavoratore è stato sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità lamentata, che è stata poi addotta per poter giustificare l’assenza dal proprio posto di lavoro;
- se il comportamento, avendo in valutazione la natura e le caratteristiche dell’infermità denunciata al proprio datore di lavoro e le mansioni svolte dal dipendente, venga considerata tale da pregiudicare o da ritardare la guarigione e il conseguente rientro in servizio da parte del lavoratore.
Chiarito quanto sopra, è dunque bene evidenziare come solamente in queste due ipotesi possa realmente ravvisarsi una violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, tale da legittimare il recesso dal rapporto di lavoro, e dunque la legittimità del provvedimento di licenziamento da parte del datore.
Se invece i comportamenti di cui sopra non si sono verificati, e dunque il lavoratore pur essendo effettivamente malato non ha compromesso il suo pieno rientro in servizio nei tempi minimi necessari attraverso attività che ne potessero pregiudicare o ritardare la guarigione, il licenziamento dovrà essere considerato illegittimo.