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Home » Commerciale » Lavoro » Sicurezza sul lavoro, se non c’è il dipende può rifiutarsi di lavorare (ed essere pagato)

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Sicurezza sul lavoro, se non c’è il dipende può rifiutarsi di lavorare (ed essere pagato)

Avv. Beatrice Bellato consulenzalegaleitalia.it Sicurezza sul lavoro, se non c’è il dipende può rifiutarsi di lavorare (ed essere pagato)
Sicurezza-sul-lavoro
Avv. Beatrice Bellato

La sicurezza sul lavoro ed il rifiuto alla prestazione lavorativa – indice:

  • I fatti
  • La legittimità dle rifiuto
  • La decisione
  • Le conclusioni

Il datore di lavoro deve assicurare ai propri dipendenti le condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza sul lavoro, adottando tutte quelle misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Se non lo fa, i lavoratori possono legittimarsi a non eseguire la prestazione, ed hanno il diritto di essere regolarmente pagati. Ad affermare quanto sopra è la Corte di Cassazione, con sentenza n. 836/2016. Vediamo come è giunta a tali valutazioni.

I fatti e le sentenze impugnate

La vicenda comincia con il ricorso proposto al tribunale di Torino da parte di 14 dipendenti di una nota società italiana operante nel settore auto, che “convenivano la datrice di lavoro esponendo che erano addetti all’assemblaggio delle portiere  delle auto presso il reparto denominato “Ute 11″, che nei mesi precedenti il marzo 2008 si era verificata la caduta di diverse portiere; che il 3 marzo 2008 si era verificata l’ennesima caduta di una portiera, per cui i ricorrenti si erano rifiutati di proseguire il lavoro sino a quando l’azienda non avesse adempiuto agli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro”.

In seguito a ciò, la società datrice di lavoro aveva fatto intervenire una squadra di manutenzione per effettuare alcuni interventi urgenti di riparazione e di sostituzione dei ganci di tenuta, successivamente ai quali gli operai avevano ripreso il loro lavoro. In tale contesto, l’azienda aveva addebitato ai lavoratori la retribuzione corrispondente al fermo degli impianti a causa degli interventi di riparazione, e qualificando il rifiuto della prestazione come sciopero.

Ebbene, il tribunale di Torino rigettava il ricorso degli operai, affermando che l’inadempimento datoriale non fosse grave ed escludesse pertanto l’applicabilità dell’art. 1460 c.c. I lavoratori soccombenti, impugnavano la decisione e la Corte di Appello di Torino accoglieva il gravame condannando la società a pagare le somme trattenute, oltre accessori e spese.

La legittimità del rifiuto temporaneo della prestazione

La Corte di Appello, accogliendo le lamentele dei lavoratori, riteneva “sussistenti tutti i requisiti della fattispecie prevista dall’art. 1460 c.c. con la conseguente legittimità del rifiuto temporaneo della prestazione” attuato dai lavoratori, considerando nella fattispecie che il rifiuto era immediatamente seguito alla caduta della portiera (non certo la prima) e che la gravità dell’evento, “in correlazione con gli obblighi di sicurezza sul lavoro e di prevenzione gravanti sul datore di lavoro, era desumibile dalla circostanza, riconosciuta dall’azienda medesima, che la caduta di una portiera avrebbe potuto provocare seri danni all’addetto che ne fosse stato investito; che l’indagine sulla causale dei distacchi non apportava elementi tali da ridurre o attenuare la gravità dell’inadempimento circa gli obblighi di sicurezza sul lavoro e prevenzione.

Nell’ottica della gravità complessiva del comportamento datoriale inadempiente occorreva evidenziare che nel periodo precedente l’episodio del 3 marzo 2008 si erano verificati altri casi di sganciamento totale o parziale delle portiere e tale circostanze erano state comunicate ai superiori; che, sotto il profilo della proporzionalità della reazione, la sospensione della prestazione si era protratta per il tempo strettamente necessario per consentire l’intervento dei manutentori, dopo di che i lavoratori, rassicurati dall’intervento aziendale, avevano ripreso a lavorare”.

La decisione della Corte e la novità in tema di sicurezza sul lavoro

Esaminando i motivi del ricorso della società datrice di lavoro, la Cassazione ricorda come viene contestato alla Corte territoriale di aver riconosciuto “la permanenza in capo al datore di lavoro dell’obbligo retributivo pur in assenza di una prestazione lavorativa, con deviazione dal principio di corrispettività del contratto di lavoro, nonché di avere ritenuto che dal rifiuto della prestazione lavorativa, quale reazione all’inadempimento datoriale, possa derivare automaticamente una posizione di mora accipiendi del datore di lavoro”.

La Cassazione non condivide tale posizione, premettendo innanzitutto che il datore di lavoro è obbligato, a mente dell’art. 2087 c.c., ad assicurare le condizioni di lavoro ritenute idonee a poter garantire la sicurezza delle lavorazioni, ed è altresì tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Per la giurisprudenza della Corte, la violazione di tale obbligo legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo l’inadempimento altrui. Per poter garantire l’effettività della tutela in ambito civile, “non solo azioni volte all’adempimento dell’obbligo di sicurezza o alla cessazione del comportamento lesivo ovvero a riparare il danno subito, ma anche il potere di autotutela contrattuale rappresentato dall’eccezione di inadempimento, rifiutando l’esecuzione della prestazione in ambiente nocivo soggetto al dominio dell’imprenditore”.

La violazione del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza

Ancora, la Corte ricorda come è stato più volte statuito come nell’ipotesi di violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 cod. civ., “non solo è legittimo, a fronte dell’inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, ma costui conserva, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore“.

Gli ermellini sottolineano inoltre come non spettava certo ai dipendenti individuare quale fosse la causa dei distacchi delle portiere, “gravando piuttosto sul datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, atteso che, ai sensi dell’art. 1218 c.c., è il debitore che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile, tenuto conto del riparto degli oneri di allegazione e prova”.

Le conclusioni della Cassazione

Infine, la Corte sottolinea come nei contratti a prestazioni corrispettive, come quello di cui al caso, nell’ipotesi in cui una delle parti giustifichi il proprio comportamento inadempiente con l’inadempimento dell’altra, bisogna procedere ad una valutazione comparativa del comportamento dei contraenti anche con riguardo ai rapporti di causalità e di proporzionalità delle rispettive inadempienze in relazione alla funzione economico-sociale del contratto ed ai diversi obblighi su ciascuna delle parti gravanti, finalizzato a stabilire se il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell’altra di eseguire la prestazione dovuta.

“Ove, in ipotesi, il comportamento “inadempiente”, cronologicamente anteriore, seppure accertato non risulti “grave”, non è di buona fede e, quindi, non è giustificato, il rifiuto dell’altra parte di adempiere correttamente alla prestazione secondo le istruzioni fornite. In sostanza il requisito della buona fede previsto dall’art. 1460 c.c., comma 2, per la proposizione dell’eccezione inadimplenti non est adimplendum sussiste quando tale rifiuto sia determinato non solo da un inadempimento grave, ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l’art. 1175 c.c. impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo perseguite”.

La gravità dell’adempimento è una valutazione del giudice di merito

Detto ciò, costituisce un principio oramai consolidato di legittimità quello secondo cui la valutazione della gravità dell’inadempimento contrattuale è rimessa all’esame del giudice di merito ed è incensurabile in Cassazione se la relativa motivazione risulti immune da vizi logici e giuridici. Nella fattispecie, la Corte di Appello ha considerato il rifiuto della prestazione determinato dall’ennesima caduta di una portiera. Si tratta di un evento grave, poichè la caduta di una portiera avrebbe potuto provocare gli stessi danni all’addetto. L’indagine sulla causale dei distacchi non apportava invece elementi tali da ridurre o attenuare la gravità dell’inadempimento circa gli obblighi di sicurezza sul lavoro e prevenzione.

Avv. Bellato – diritto civile e contrattuale

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