La tolleranza del datore di lavoro non legittima la violazione delle regole – guida rapida
- Il caso in esame: licenziamento per violazione del divieto di fumo
- L’orientamento della Cassazione: la tolleranza non esclude l’antigiuridicità
- L’errore della Corte d’Appello: la mancata indagine sulla buona fede del lavoratore
- Il rapporto tra tolleranza datoriale e responsabilità del lavoratore
- Condizioni per l’affidamento legittimo del lavoratore
- Implicazioni pratiche per datori di lavoro e dipendenti
- I riflessi sulla proporzionalità della sanzione
- Le nostre considerazioni finali
La recente ordinanza n. 7826 del 24 marzo 2025 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha fornito importanti chiarimenti sul valore giuridico della tolleranza datoriale rispetto a comportamenti illegittimi dei dipendenti.
Il caso, che ha visto protagonisti una società per azioni (Spa) e un suo dipendente licenziato per aver fumato in un’area vietata, offre spunti di riflessione significativi sulla responsabilità disciplinare del lavoratore e sui limiti dell’affidamento che quest’ultimo può riporre nella mancata reazione del datore di lavoro a precedenti violazioni.
Partiamo dunque dal caso in esame per trarre qualche spunto generale.
Il caso in esame: licenziamento per violazione del divieto di fumo
La vicenda giudiziaria trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato al dipendente il 12 ottobre 2021 dalla Spa. Al dipendente era stato contestato di aver fumato nei pressi dell’area “air-side”, in violazione di un espresso divieto. Il Tribunale di primo grado aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, condannando la società alla reintegra del lavoratore e al risarcimento del danno, decisione successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Milano.
La Corte territoriale aveva basato la propria decisione su alcuni elementi fattuali ritenuti decisivi:
- la mancanza di cartelli recanti il divieto di fumo nella zona specifica;
- la prassi consolidata di tutti i dipendenti, compresi i superiori diretti del lavoratore, di recarsi in quella zona per fumare;
- la consapevolezza da parte della società di tale prassi e la sua tolleranza, dimostrata dalla mancata adozione di provvedimenti per far rispettare il divieto.
Secondo i giudici di merito, questa “tolleranza” datoriale era sintomatica di una valutazione della prassi come non illecita, con conseguente insussistenza del fatto contestato e applicazione della tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015.
L’orientamento della Cassazione: la tolleranza non esclude l’antigiuridicità
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha ribaltato questa impostazione, chiarendo che la mera tolleranza del datore di lavoro rispetto a condotte violative di obblighi afferenti al rapporto di lavoro non è di per sé idonea a far venire meno l’antigiuridicità della condotta, né dal punto di vista oggettivo né da quello soggettivo.
I giudici di legittimità hanno precisato che, in ipotesi di tolleranza di condotte illegittime, “non basta la mancata reazione del soggetto deputato al controllo a far venire meno l’illiceità della condotta”. L’esclusione di responsabilità dell’autore della violazione “in tanto è configurabile in quanto ricorrano elementi ulteriori, capaci di ingenerare nel trasgressore la incolpevole convinzione di liceità della condotta, sì che non possa essergli mosso neppure un addebito di negligenza”.
Il principio, che la Corte di Cassazione dichiara estensibile alla sfera della responsabilità disciplinare del dipendente, implica che l’errore sulla liceità della condotta (la “buona fede”) può escludere la responsabilità solo quando risulti effettivamente inevitabile. A tal fine, è necessario che sussista un “elemento positivo, estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare nello stesso la convinzione della sopra riferita liceità”, senza che il medesimo sia stato negligente o imprudente.
Non basta quindi che il datore di lavoro abbia in passato omesso di sanzionare comportamenti analoghi: occorre che il lavoratore abbia “fatto tutto quanto possibile per osservare la legge” e che “nessun rimprovero possa essergli mosso”, affinché l’errore risulti davvero incolpevole e non suscettibile di essere impedito con l’ordinaria diligenza.
L’errore della Corte d’Appello: la mancata indagine sulla buona fede del lavoratore
L’errore principale della Corte d’Appello di Milano, secondo la Cassazione, consiste nell’aver attribuito alla tolleranza datoriale l’effetto di escludere automaticamente l’antigiuridicità della condotta del dipendente, senza compiere un’indagine approfondita sulla sussistenza di quegli “elementi ulteriori” necessari per configurare un affidamento legittimo e incolpevole.
In particolare, i giudici di merito avrebbero dovuto verificare se il dipendente avesse, in buona fede, fatto il possibile per rispettare il divieto di fumo, tale che nessun rimprovero poteva essergli mosso, oppure se avesse semplicemente approfittato della mancata reazione di parte datoriale fino a quel momento.
La Corte Suprema sottolinea come fosse pacifico nel processo che il lavoratore fosse consapevole dell’esistenza del divieto di fumo nell’area in questione. In questo contesto, la semplice mancanza di reazione del datore di lavoro rispetto a precedenti violazioni non poteva automaticamente trasformare un comportamento oggettivamente illecito in una condotta lecita.
Il rapporto tra tolleranza datoriale e responsabilità del lavoratore
La sentenza in esame offre l’occasione per riflettere più approfonditamente sul rapporto tra tolleranza datoriale e responsabilità disciplinare del lavoratore, tema di grande rilevanza pratica in molti contesti aziendali.
La tolleranza può essere definita come la mancata reazione di fronte a comportamenti teoricamente sanzionabili. Nel diritto del lavoro, essa si manifesta quando il datore di lavoro, pur essendo a conoscenza di condotte dei dipendenti che violano regole aziendali o obblighi contrattuali, omette di adottare provvedimenti disciplinari.
Il fenomeno è piuttosto diffuso nelle realtà lavorative e può dipendere da molteplici fattori: una valutazione di scarsa rilevanza delle infrazioni, la volontà di mantenere un clima aziendale disteso, difficoltà organizzative nel controllare costantemente il rispetto di tutte le regole, o semplicemente inerzia gestionale.
La giurisprudenza ha più volte affrontato la questione degli effetti giuridici della tolleranza datoriale, delineando alcuni principi fondamentali che possiamo così sintetizzare:
Principio generale di liceità | La condotta del lavoratore, se oggettivamente contraria a norme di legge o contrattuali, rimane in linea di principio illecita e sanzionabile, nonostante precedenti comportamenti tolleranti del datore di lavoro.
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Principio dell’affidamento | In casi particolari, la tolleranza prolungata e inequivocabile può generare nel lavoratore un legittimo affidamento sulla liceità del comportamento, tale da escludere l’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare. |
Principio di proporzionalità | Anche quando la tolleranza non esclude l’antigiuridicità della condotta, essa può incidere sulla valutazione della proporzionalità della sanzione, rendendo eccessivo un provvedimento particolarmente severo per comportamenti a lungo tollerati. |
La sentenza n. 7826/2025 si inserisce in questo quadro giurisprudenziale, rafforzando il primo principio e precisando le condizioni limitative per l’applicazione del secondo.
Condizioni per l’affidamento legittimo del lavoratore
Dall’analisi dell’ordinanza della Cassazione emergono alcuni criteri che possono guidare l’interprete nella valutazione del legittimo affidamento del lavoratore sulla liceità di una condotta generalmente tollerata. Proviamo a valutarli uno per uno.
Incolpevolezza dell’errore sulla liceità
Non è sufficiente che il datore di lavoro abbia tollerato comportamenti simili in passato. È necessario che l’errore del lavoratore sulla liceità della condotta sia genuinamente incolpevole, cioè non imputabile a negligenza o imprudenza. Il lavoratore deve aver fatto “tutto quanto possibile per osservare la legge” e nessun rimprovero deve potergli essere mosso.
Elemento positivo esterno
La Cassazione richiede l’esistenza di un “elemento positivo, estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare nello stesso la convinzione della liceità” della condotta. La semplice inerzia o mancata reazione del datore non costituisce di per sé tale elemento positivo.
Caratteristiche della violazione
La natura della regola violata influisce sulla possibilità di configurare un legittimo affidamento. Quando si tratta di norme poste a tutela di interessi primari come la salute o la sicurezza (come nel caso del divieto di fumo), la possibilità di un affidamento legittimo è più ristretta rispetto a violazioni di regole meramente organizzative.
Consapevolezza della regola
Un elemento decisivo è la consapevolezza del lavoratore circa l’esistenza della regola. Se il dipendente conosce perfettamente il divieto (come nel caso in esame), sarà più difficile sostenere un affidamento legittimo basato sulla sola tolleranza.
Comportamento complessivo del datore di lavoro
Non rileva solo la mancata reazione a precedenti violazioni, ma il comportamento complessivo del datore di lavoro. Ad esempio, se l’azienda, pur non sanzionando i trasgressori, ha comunque ricordato periodicamente l’esistenza del divieto o ha adottato altre misure preventive, la tolleranza avrà un peso minore nel configurare un affidamento legittimo.
Implicazioni pratiche per datori di lavoro e dipendenti
La sentenza della Cassazione offre importanti indicazioni pratiche sia per i datori di lavoro che per i dipendenti.
Le implicazioni per i datori di lavoro
Per quanto riguarda le implicazioni per i datori di lavoro, riassumiamo in questa tabella le principali conseguenze:
Coerenza nell’applicazione delle regole | La tolleranza prolungata può rendere più difficile sanzionare successivamente comportamenti a lungo tollerati, anche se non li rende automaticamente leciti. È quindi importante mantenere una coerenza nell’applicazione delle regole aziendali. |
Chiarezza nella comunicazione | Le regole e i divieti devono essere comunicati in modo chiaro e inequivocabile, attraverso regolamenti aziendali, cartellonistica adeguata, formazione e informazione periodica. |
Gradualità delle sanzioni | In caso di prassi tollerata che si intende interrompere, può essere opportuno procedere con gradualità, iniziando con richiami verbali o sanzioni conservative prima di arrivare a provvedimenti più gravi. |
Documentazione delle violazioni | È importante documentare adeguatamente le violazioni e i provvedimenti adottati, per dimostrare l’assenza di una tolleranza generalizzata in caso di contenzioso. |
Le implicazioni per i dipendenti
Di rilievo anche le implicazioni per i dipendenti. Ecco, in tabella, una breve sintesi:
Consapevolezza dell’illiceità | La sentenza chiarisce che la mera tolleranza datoriale non rende lecito un comportamento oggettivamente contrario a norme di legge o contrattuali. Il dipendente non può quindi invocare automaticamente la tolleranza come scriminante. |
Onere di diligenza | Per poter invocare un legittimo affidamento, il lavoratore deve dimostrare di aver agito con la massima diligenza e che il suo errore sulla liceità della condotta era effettivamente inevitabile. |
Valutazione del contesto complessivo | La semplice constatazione che “altri lo fanno” o che “nessuno è mai stato punito” non è sufficiente per ritenere legittimo un comportamento che si sa essere contrario alle regole. |
I riflessi sulla proporzionalità della sanzione
Un aspetto non direttamente affrontato dalla Cassazione nel caso specifico, ma rilevante in termini generali, riguarda l’incidenza della tolleranza datoriale sulla proporzionalità della sanzione disciplinare.
Anche quando la tolleranza non è sufficiente a escludere l’antigiuridicità della condotta, essa può comunque influire sulla valutazione della proporzionalità del provvedimento disciplinare. In particolare, potrebbe risultare sproporzionato un licenziamento per una condotta a lungo tollerata, soprattutto se adottato senza preventivi richiami o sanzioni conservative.
I giudici, pur riconoscendo l’illiceità del comportamento, potrebbero quindi ritenere eccessiva la sanzione espulsiva, applicando le tutele previste per il licenziamento sproporzionato anziché quelle relative all’insussistenza del fatto contestato.
Le nostre considerazioni finali
L’ordinanza della Cassazione n. 7826/2025 rappresenta un importante contributo alla chiarificazione del rapporto tra tolleranza datoriale e responsabilità disciplinare del lavoratore. La Corte ha ribadito un principio fondamentale: la mera tolleranza del datore di lavoro non è di per sé sufficiente a legittimare comportamenti contrari a norme di legge o contrattuali.
Per poter invocare un legittimo affidamento, il lavoratore deve dimostrare che il suo errore sulla liceità della condotta era genuinamente incolpevole e determinato da elementi positivi esterni che hanno ingenerato in lui la convinzione della liceità del comportamento. Non basta che il datore di lavoro abbia omesso di sanzionare comportamenti analoghi in passato: è necessario che il lavoratore abbia fatto tutto il possibile per rispettare le regole e che nessun rimprovero possa essergli mosso.
Questa impostazione rigorosa è particolarmente significativa quando si tratta di violazioni di norme poste a tutela di interessi primari, come nel caso del divieto di fumo, che coinvolge la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
La sentenza invita datori di lavoro e dipendenti a una maggiore consapevolezza delle rispettive responsabilità: i primi devono garantire chiarezza e coerenza nell’applicazione delle regole aziendali; i secondi non possono trincerarsi dietro la tolleranza datoriale per giustificare comportamenti che sanno essere contrari alle norme.