Frasi offensive sull’orientamento sessuale sul luogo di lavoro – guida rapida
- I fatti
- L’iter processuale
- I motivi del ricorso
- La modifica delle condizioni contrattuali
- La nostra opinione
L’ordinanza n. 6345 del 10 marzo 2025 ha indotto la Corte di Cassazione ad affermare che rivolgere frasi offensive sull’orientamento sessuale di un collega integra una forma di molestia, per la cui sussistenza non è richiesta l’intenzione soggettiva dell’autore della condotta.
Come sempre, cerchiamo di condividere insieme una breve ricostruzione dei fatti e, di conseguenza, delle motivazioni della Suprema Corte.
I fatti
Il caso in esame riguarda un licenziamento disciplinare per giusta causa. I protagonisti della vicenda sono dunque il dipendente licenziato in qualità di ricorrente e la società datrice di lavoro in qualità di controricorrente.
Il dipendente condivide come in data 7 e 20 novembre 2017 la società gli abbia contestato comportamenti disciplinarmente rilevanti, con conseguente licenziamento. Il 27 dicembre 2017 il lavoratore ha presentato le proprie giustificazioni con richiesta di essere giudicato dal Consiglio di disciplina, per un licenziamento poi confermato il 9 gennaio 2018.
In particolare, la causa del licenziamento riguardava comportamenti inappropriati nei confronti di una collega. Emerge dalla sentenza che il dipendente aveva pronunciato frasi inappropriate verso una collega donna, con frasi offensive sull’orientamento sessuale, creando una situazione di imbarazzo.
I comportamenti sono stati qualificati come molestie sessuali e ritenuti particolarmente gravi in quanto avvenuti sul luogo di lavoro, in presenza di altri colleghi, con con carattere non episodico (contestata recidiva) e considerati “disonorevoli ed immorali“.
Frasi offensive sull’orientamento sessuale: l’iter processuale
Il dipendente ha impugnato il provvedimento espulsivo lamentando vizi e insussistenza dei fatti contestati. Il Tribunale di Bologna ha rigettato l’impugnazione del licenziamento sia in fase sommaria che a seguito dell’opposizione del lavoratore.
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza n. 211/2020, ha parzialmente accolto il reclamo, dichiarando illegittimo il licenziamento per sproporzione e condannando la società a pagare 20 mensilità della retribuzione globale.
Con ordinanza n. 7029/2023 la Cassazione ha accolto il primo motivo del ricorso incidentale della società, cassando la sentenza e rinviando per il riesame. A seguito della riassunzione, la Corte d’Appello di Bologna ha rigettato il gravame del lavoratore (sentenza n. 564/2023).
Il dipendente ha dunque proposto ricorso per Cassazione basato su tre motivi, che esamineremo tra breve, con la società datore di lavoro che ha resistito con controricorso e memoria.
I motivi del ricorso
Come abbiamo anticipato, i motivi del ricorso sono tre. Con il primo motivo (art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c.), il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe ritenuto attendibile la testimonianza di LR senza adeguata valutazione.
La Cassazione dichiara il motivo inammissibile per plurime ragioni:
- non riguarda un fatto storico ma una deposizione testimoniale
- si traduce in una censura alla formazione del convincimento della Corte territoriale, inattaccabile in sede di legittimità
- tenta di rimettere in discussione fatti ormai accertati su cui si è formato giudicato interno.
Con il secondo motivo (art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.), il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2119 c.c. e 45, punto 6, R.D. n. 148/1931, contestando l’integrazione della giusta causa di licenziamento in violazione del criterio di proporzionalità.
Anche in questo caso, la Cassazione ritiene il motivo inammissibile perché:
- sollecita una diversa valutazione dei fatti, interdetta in sede di legittimità
- la decisione impugnata si è attenuta al principio di diritto già affermato dalla Cassazione nella pronuncia rescindente
- la valutazione della proporzionalità presuppone accertamenti di fatto, esclusi in sede di legittimità.
Con il terzo e ultimo motivo (art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.), il ricorrente contesta la valutazione della Corte territoriale riguardo a un’ulteriore condotta di minaccia verso un ingegnere.
La Cassazione dichiara il motivo assorbito, non essendo necessario esaminarlo dato che la condotta principale era già sufficiente a giustificare il licenziamento.
Le ragioni della Cassazione sulle frasi offensive sull’orientamento sessuale
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, confermando la legittimità del licenziamento per tre motivi fondamentali.
Tutela contro le discriminazioni sull’orientamento sessuale
La Corte territoriale ha correttamente qualificato i comportamenti come molestie sessuali, precisando che il focus della tutela è sul contenuto oggettivo della condotta e sulla percezione soggettiva della vittima, che non è necessaria l’intenzione soggettiva di infliggere molestie e che le molestie sono considerate discriminazione quando hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità e creare un clima degradante.
Proporzionalità della sanzione
La Corte ha ritenuto appropriata la sanzione espulsiva considerando la gravità del comportamento “disonorevole ed immorale”, il contesto lavorativo e la presenza di altri colleghi, la recidiva nel comportamento e la necessità di proteggere la dignità della lavoratrice e l’ambiente di lavoro.
Rispetto dei precedenti
La decisione si allinea con la giurisprudenza consolidata in materia di molestie sessuali sul lavoro, riconoscendo che tali comportamenti ledono principi fondamentali ormai radicati nella coscienza sociale.
La nostra opinione
La sentenza della Cassazione si inserisce nel solco della giurisprudenza che negli ultimi anni ha rafforzato la tutela contro le molestie sessuali sui luoghi di lavoro, riconoscendole come forma di discriminazione.
È peraltro significativo che la Corte abbia posto l’accento sul carattere oggettivo della condotta e sulla percezione della vittima, superando la necessità di provare un’intenzione soggettiva dell’autore. Un approccio che facilita la tutela delle vittime, che non devono dimostrare l’elemento psicologico dell’autore.
La Corte ribadisce poi che comportamenti che violano la dignità personale e creano un ambiente di lavoro ostile possono giustificare la massima sanzione disciplinare, per un orientamento che rafforza la protezione dell’ambiente lavorativo come spazio di rispetto reciproco.
Ancora, la Corte ha opportunamente valorizzato elementi contestuali come la presenza di colleghi e la recidiva, riconoscendo che tali fattori aumentano la gravità della condotta e il suo impatto sul clima lavorativo. La sentenza ribadisce infine i confini del giudizio di cassazione, escludendo rivalutazioni di merito su fatti già accertati nei gradi precedenti e confermando la distinzione tra questioni di diritto e di fatto.
Non mancano, in tal senso, gli spunti critici e di approfondimento. La decisione riflette infatti la crescente attenzione verso la dignità del lavoratore e la qualità dell’ambiente di lavoro, ma solleva interrogativi sul bilanciamento con le garanzie procedurali nel procedimento disciplinare. Inoltre, sebbene formalmente richiamato, il principio di proporzionalità rischia talvolta di essere applicato in modo automatico, soprattutto quando si tratta di comportamenti che toccano sfere sensibili come quella sessuale. Sarebbe auspicabile una valutazione più articolata delle singole fattispecie.
Infine, la sentenza rispecchia l’evoluzione della sensibilità sociale verso comportamenti un tempo tollerati o sottovalutati. Il riferimento ai “valori ormai radicati nella coscienza sociale” evidenzia come il diritto recepisca i cambiamenti culturali, specialmente in ambiti come il rispetto della dignità personale e della sfera sessuale.