Il reato di infedeltà patrimoniale – indice:
- Fonti normative
- I soggetti attivi
- I presupposti
- Il dolo specifico
- La condotta tipica
- I beni sociali
- Vantaggi compensativi
- Procedibilità
- Appropriazione indebita
Il reato di infedeltà patrimoniale è un delitto contro il patrimonio. Non trovando una tutela sufficiente nel codice penale, se non tramite la fattispecie dell’appropriazione indebita, il legislatore del 2002, con la legge n. 61, lo ha inserito nel codice civile come strumento di repressione delle condotte di alcuni organi sociali infedeli. Prima dell’introduzione di tale norma il codice civile sanzionava il comportamento infedele soltanto dell’amministratore di società e neppure di tutte le figure di amministratore configurabili. Di ciò si occupava il vecchio articolo 2631, riformulato dalla legge 61/2002 che ha operato una riforma del diritto penale delle società.
Fonti normative
L’articolo 2634 del codice civile recita:
“Gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale.
In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo.
Per i delitti previsti dal primo e secondo comma si procede a querela della persona offesa”.
Nei paragrafi successivi si analizza la struttura del reato come emerge dal dettato normativo: i soggetti attivi del reato, il presupposto, la condotta, l’elemento soggettivo, la procedibilità.
I soggetti attivi del reato di infedeltà patrimoniale
Il delitto di infedeltà patrimoniale è addebitabile a tre categorie di soggetti tassativamente individuate dalla norma:
- amministratori;
- direttori generali e
- liquidatori.
Amministratori
Discutendo sulla prima categoria bisogna tenere presente che una società di capitali può adottare tre sistemi di amministrazione e controllo: tradizionale, monistico e dualistico. In base alla scelta la società avrà un consiglio di amministrazione o un consiglio di gestione per quanto riguarda l’organo amministrativo e un collegio dei sindaci, un consiglio di sorveglianza o un comitato per il controllo sulla gestione come organo di controllo.
Sebbene l’articolo 2634 del codice civile sembri fare riferimento soltanto ai membri del sistema tradizionale di amministrazione, invocando l’articolo 223-septies, primo comma, delle disposizioni attuative al codice civile, secondo cui “Se non diversamente disposto, le norme del codice civile che fanno riferimento agli amministratori e ai sindaci trovano applicazione, in quanto compatibili, anche ai componenti del consiglio di gestione e del consiglio di sorveglianza, per le società che abbiano adottato il sistema dualistico, e ai componenti del consiglio di amministrazione e ai componenti del comitato per il controllo sulla gestione, per le società che abbiano adottato il sistema monistico”, la disposizione in esso contenuta si può estendere anche ai membri del consiglio di gestione adottato nel sistema dualistico.
Direttori generali
I direttori generali sono delle figure apicali all’interno di una società che ricoprono posizioni in subordinazione degli amministratori. Attuano infatti le disposizioni da questi ultimi impartite e sono responsabili al loro pari. L’articolo 2396 del codice civile infatti stabilisce che “Le disposizioni che regolano la responsabilità degli amministratori si applicano anche ai direttori generali nominati dall’assemblea o per disposizione dello statuto, in relazione ai compiti loro affidati, salve le azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società”. Per la loro autonomia decisionale sono delle figure fatte confluire nella sfera di punibilità dell’articolo 2634 del codice civile.
Liquidatori
Infine, per quanto riguarda la figura dei liquidatori, il senso di inserirli fra le categorie punibili ai sensi dell’articolo 2634 del codice civile è che tali figure ricoprono le vesti di amministratori durante la fase di liquidazione della società. Hanno infatti il compito di amministrare il patrimonio della società per soddisfare i creditori e i soci.
Il presupposto dell’infedeltà patrimoniale
Il reato di infedeltà patrimoniale si configura quando uno dei soggetti appena descritti ha un interesse in conflitto con quello della società. Il soggetto attivo del reato pertanto è portatore di un interesse proprio o altrui che è in conflitto con quello della società.
La dottrina e la giurisprudenza hanno delineato alcune caratteristiche di questo conflitto di interessi. In particolare:
- la condotta del reato deve avere quale risultato un danno patrimoniale in capo alla società configurando un reato di danno e non di mero pericolo. Da ciò deriva che il conflitto di interessi deve avere connotati di natura economica;
- il conflitto dev’essere valutabile oggettivamente, attuale, cioè essere presente nel momento in cui viene commessa la condotta tipica, reale ed effettivo. Tali valutazioni vengono valorizzate analizzando come avviene in concreto il conflitto.
Con riguardo ai presupposti di configurabilità del reato in esame si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 55412/2018. In tale occasione la Corte si è pronunciata come segue “Ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale ex art. 2634 c.c., è necessario un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra l’amministratore agente e la società, a causa del quale il primo, nell’operazione economica che deve essere deliberata, si trova in una posizione antitetica rispetto a quella dell’ente, tale da pregiudicare gli interessi patrimoniali di quest’ultimo, non essendo sufficienti situazioni di mera sovrapposizione o commistione di interessi scaturenti dalla considerazione di rapporti diversi ed estranei all’operazione deliberata per conto della società”.
L’elemento soggettivo del reato
Il reato di infedeltà patrimoniale ha come elemento soggettivo il dolo specifico. Il dolo specifico si traduce nella coscienza e volontà del fatto accompagnate dalla volontà di realizzare una conseguenza ulteriore e specifica.
Il decreto legislativo 61/2002 ha introdotto delle novità con riguardo all’elemento soggettivo rispetto alla precedente formulazione del reato contenuta nell’articolo 2631 del codice civile. Si tratta in particolare:
- di aver aggiunto un ulteriore oggetto del dolo specifico costituito dall'”altro vantaggio“. Il legislatore ha voluto ricomprendere anche atti di disposizioni diversi da quelli mossi per scopi patrimoniali come ad esempio la volontà di incrementare il proprio prestigio personale;
- aver inserito l’avverbio “intenzionalmente” nel cagionare un danno patrimoniale alla società.
La condotta del reato di infedeltà patrimoniale
La condotta tipica del reato in esame è il porre in essere un atto di disposizione di beni sociali ovvero concorrere alla deliberazione di tali atti. In altre parole il soggetto attivo del reato deve compiere direttamente un atto di disposizione di un bene sociale oppure esprimere voto favorevole alla deliberazione del compimento di tali atti da parte del consiglio di amministrazione.
La dottrina ha considerato quali condotte tipiche del reato anche alcune fattispecie omissive che comportino una diminuzione del patrimonio sociale ma non quelle che ostacolano l’accrescimento del patrimonio stesso.
Con particolare riguardo agli atti di disposizione di beni sociali, il 16 ottobre 2020, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 28831 ha stabilito che “La condotta di infedeltà patrimoniale richiamata dall’art. 2634 c.c. si materializza in atti di disposizione, in sé astrattamente leciti, ma che assumono una rilevanza penale quando chi li compie si trovi in una posizione antagonista rispetto a quella della società, quale portatore di un interesse extrasociale“.
I beni sociali oggetto di atti di disposizione
La nozione di beni sociali offerta dalla norma è molto ampia. Comprende infatti tutti i beni mobili e immobili di proprietà della società. Sono ricompresi nella nozione di beni sociali non solo quelli materiali ma anche quelli immateriali come ad esempio l’avviamento. Non sono invece ricomprendibili le mere aspettative e le perdite di chances. In particolare non può essere considerato bene sociale ai sensi dell’articolo 2634 del codice civile ogni bene che non può essere tradotto in un valore di scambio. I beni sociali menzionati dalla norma quindi devono essere suscettibili di valutazione economica.
A titolo esemplificativo si citano alcuni beni sociali intesi dalla norma:
- immobilizzazioni immateriali come diritti di brevetto e di utilizzazione delle opere e dell’ingegno;
- immobilizzazioni materiali come macchinari, impianti e terreni;
- rimanenze di magazzino;
- crediti e disponibilità liquide.
Si precisa infine che su tali beni non è necessario che la società eserciti un diritto di proprietà. È sufficiente bensì l’esercizio di un qualsiasi diritto che possa essere compresso.
Anche i beni futuri, certi e suscettibili di valutazione economica nel momento dell’atto di disposizione sono oggetto del reato.
Infedeltà patrimoniale e vantaggi compensativi
Il terzo comma dell’articolo 2634 del codice civile afferma che “In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”.
La teoria dei vantaggi compensativi
La norma incardina la cosiddetta “teoria dei vantaggi compensativi” elaborata per il fenomeno dei gruppi d’impresa. Su tale teoria è interessante prendere spunto da una sentenza della Corte di Cassazione la n. 16707/2004.
Ha spiegato la Corte che “L’autonomia soggettiva e patrimoniale che pur sempre contraddistingue ogni singola società appartenente ad un gruppo impone all’amministratore di perseguire prioritariamente l’interesse della specifica società cui egli è preposto; e dunque non gli consente di sacrificarne l’interesse in nome di un diverso interesse che, se pure riconducibile a quello di chi è collocato al vertice del gruppo, non assumerebbe alcun rilievo per i soci di minoranza e per i terzi creditori della società controllata. Ciò però non esclude affatto la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società”.
E soffermandosi su una visione generale dell’attività d’impresa del gruppo afferma che: “…nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un’impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma a ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti. Sicché è perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l’interesse della società non possa prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza”.
L’esclusione della rilevanza penale e la prova dei vantaggi compensativi
Nelle righe successive della sentenza tuttavia si legge che: “In un simile contesto, tuttavia, l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia. Non può, viceversa, sostenersi che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti “benefici compensativi” e che, pertanto, competa alla società la quale abbia agito contro il proprio amministratore l’onere di dimostrarne l’inesistenza”.
La dottrina più autorevole ritiene pertanto che il legislatore abbia formulato tale norma per evitare che, sebbene lo svolgersi dell’attività d’impresa nel fenomeno del gruppo comporti un aumento delle probabilità che vengano commessi atti illeciti nell’ambito dell’attività, vengano qualificati penalmente rilevanti atti che considerati singolarmente avvantaggiano una società a danno di un’altra ma che si inseriscono in un più ampio disegno del gruppo caratterizzato da stabilità ed equilibrio.
Analizzando il dato testuale la norma parla di “vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili”. Una visione elastica dei vantaggi compensativi ha mosso l’animo del legislatore. Ha ricompreso infatti nella nozione di vantaggi non solo quelli già conseguiti ma anche quelli che con previsioni ragionevoli possono essere conseguiti in futuro.
Infedeltà patrimoniale e procedibilità
Il reato in esame, ai sensi del quarto comma dell’articolo 2634 del codice civile, è procedibile a querela. La regola di procedibilità vale sia quando il danno è cagionato a terzi sia quando cagionato alla società in cui i soggetti responsabili coprono il ruolo di amministratori, liquidatori o direttori generali.
Nel primo caso il terzo, titolare del bene e vittima del reato, può procedere penalmente a mezzo della querela.
Nel secondo caso è meno semplice individuare chi è il soggetto leso dal reato e che ha diritto ad agire mediante querela.
La Corte di Cassazione tuttavia si è pronunciata in merito nella sentenza n. 57077/2018 affermando che “la legittimazione alla proposizione della querela per il reato di infedeltà patrimoniale dell’amministratore spetta non solo alla società nel suo complesso ma anche – e disgiuntamente – al singolo socio; infatti il singolo socio è persona offesa del reato di infedeltà patrimoniale, e non solo danneggiato dallo stesso, in quanto la condotta dell’amministratore infedele è diretta a compromettere le ragioni della società, ma anche, principalmente, quelle dei soci o quotisti della stessa, che per l’infedele attività dell’amministratore subiscono il depauperamento del loro patrimonio. E’ quindi del tutto irrilevante che il socio di minoranza, comunque offeso nei propri interessi dalla commissione del reato, possa anche avvalersi dello strumento processuale della nomina del curatore speciale ex articolo 78 c.p.c., per far si che sia la società, in tal modo rappresentata, ad agire verso l’amministratore ritenuto infedele”.
Il termine di procedibilità
La persona offesa dal reato che può procedere con la querela pertanto può essere:
- la società;
- il singolo socio;
- il terzo.
L’articolo 124 del codice penale infine indica il termine per proporre la querela. Tale termine è di “tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato“. L’opinione prevalente ritiene che il giorno in cui il fatto che costituisce reato è conosciuto dalla società coincida con il momento in cui l’assemblea dei soci viene a conoscenza del fatto. Si tratta dunque dalla data in cui viene convocata l’assemblea nel cui ordine del giorno viene discusso sulla responsabilità degli agenti del reato.
Infedeltà patrimoniale e appropriazione indebita
Ai sensi dell’articolo 646 del codice penale: “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000″.
Il reato di appropriazione indebita era la fattispecie penale più utilizzata dal legislatore per colpire gli abusi di gestione prima dell’introduzione del reato di infedeltà patrimoniale ex articolo 2634 del codice civile.
Le due fattispecie delittuose presentano degli elementi comuni ma anche altri di divergenza. Già dal dettato normativo si possono infatti individuare degli elementi comuni.
Nella sentenza n. 15879/2008 la Cassazione infatti ravvisa i seguenti punti di incontro e di divergenza tra le due fattispecie venendo ad affermare la loro distinzione. In particolare:
- gli elementi comuni sono la diminuzione del patrimonio e l’ingiusto profitto;
- nell’appropriazione indebita tuttavia manca il requisito del conflitto di interessi preesistente che caratterizza l’infedeltà patrimoniale.