L’associazione in partecipazione – indice:
Quello di associazione in partecipazione di cui all’art. 2549 c.c. è un contratto con il quale un soggetto offre un determinato apporto a un’impresa, in relazione a uno o più affari, in cambio della partecipazione agli utili.
Più volte “ritoccato” nel corso degli anni, il legislatore ha cercato di evitare che il contratto di associazione in partecipazione potesse essere utilizzato come ombrello per mascherare una effettiva prestazione di lavoro subordinato, eludendo così l’applicazione di tale rapporto alle specifiche normative vigenti.
È proprio per questo motivo che in seguito all’entrata in vigore della riforma c.d. Jobs Act, del 2015, l’apporto dell’associato non può consistere nemmeno in parte in una prestazione lavorativa nel caso in cui costui sia una persona fisica.
Evoluzione del contratto di associazione in partecipazione
Considerato che la riforma Jobs Act non trova applicazione ai rapporti pre-esistenti, che dunque sono ancora soggetti alla vecchia disciplina, giova cercare di compiere un breve riassunto sull’evoluzione di tale rapporto.
Rammentiamo come nel 2012 la c.d. riforma Fornero avesse già impattato radicalmente sull’istituto, stabilendo che i lavoratori persone fisiche che potevano partecipare all’affare inquadrato nel contratto di associazione in partecipazione non potessero essere in numero superiore a tre, escludendo da tale conteggio – però – il coniuge, i parenti e gli affini. In caso contrario, il rapporto sarebbe stato considerato subordinato, in maniera presuntiva. Allo stesso effetto si giungeva peraltro quando non emergesse l’altro requisito di base, ovvero l’effettiva partecipazione del soggetto associato agli utili di impresa o quando non fosse stato fornito il rendiconto di cui all’art. 2552 c.c.
La disciplina tracciata dalla riforma Fornero è stata superata da quella legata al Jobs Act. Come anticipato, trova comunque vigore per i contratti in essere.
Divieto prestazioni lavorative
Arriviamo così alla disciplina vigente, con la quale è precluso, per l’associato persona fisica, apportare il proprio lavoro ad uno o più affari dell’impresa. Da quanto sopra ne deriva che l’associazione, se persona fisica, può apportare solamente un conferimento in denaro o una fornitura di beni che siano strumentali all’attività di impresa.
Tale limitazione non vale invece per le persone giuridiche, che potranno pertanto ben continuare ad offrire all’associante dei servizi lavorativi.
Anche questa novità legislativa non sembra però scongiurare il rischio potenziale che dietro un contratto di associazione in partecipazione si celi in realtà un rapporto di lavoro subordinato. Non sfugge, infatti, che in realtà le persone giuridiche che prestano servizi lavorativi potrebbero be essere ditte individuali o società uni personali, con la conseguenza che spetterà all’interprete, volta per volta, verificare se effettivamente la “forma” dell’associazione in partecipazione sia quella più corretta, soffermandosi in particolar modo sulla sussistenza del rischio di impresa in capo all’associato.
Il lavoro subordinato e l’associazione in partecipazione
Per quanto già anticipato largamente da esperienza giurisprudenziale, bisognerà ad esempio verificare l’esistenza eventuale di un trattamento retributivo in luogo di un’effettiva partecipazione agli utili. Alternativamente sarà rilevante l’inserimento stabile del lavoratore nell’organizzazione aziendale. Ciò potrebbe configurare un rapporto di lavoro subordinato se non risultano poteri di controllo in capo all’associato, e se non è osservato l’obbligo di rendiconto da parte dell’associante.
Di contro, potrebbero aiutare a qualificare un’effettiva associazione in partecipazione la presenza di una condizione di piena autonomia operativa dell’associato. Contestualmente può qualificarla la mancanza di un potere disciplinare e direttivo dell’associante, oltre che, come si è già parzialmente detto, l’esistenza del rischio di impresa in capo all’associato.
In sintesi, per poter distinguere il contratto di associazione in partecipazione dal rapporto subordinato, bisognerà non solamente guardare il nomen juris con cui viene qualificato il contratto. Si dovrà bensì accertare se lo schema negoziale pattuito abbia o meno le caratteristiche del negozio concluso. Se infatti la prestazione lavorativa:
- è stabilmente inserita nel contesto aziendale;
- non partecipa al rischio di impresa;
- non ha caratteristiche di autonomia operativa;
- si rischia di ricadere nel rapporto di lavoro subordinato, in forza di quanto stabilito dall’art. 35 Cost.
Partecipazione agli utili
La partecipazione agli utili dell’associato comporta la necessità che si faccia correlativamente carico delle eventuali perdite subite negli affari che costituiscono oggetto di controllo. È tuttavia fatto salvo ogni patto contrario. In ogni caso, le perdite subite dall’associato non devono superare il valore del suo apporto.
Si tenga conto che la partecipazione dell’associato all’affare dell’impresa non fornisce alcun diritto a costui di influenzare la gestione dello stesso. L’associato può naturalmente pretendere il rendiconto finale della sua attività, o il rendiconto annuale se l’affare si protrae per più di un esercizio.
Rapporti con terzi
Un ultimo cenno è legato ai rapporti con i terzi. Stando a quanto precisa il nostro Codice civile all’art. 2551, infatti, i terzi si rapportano solamente con l’associante, nei confronti del quale assumono diritto e obblighi.
L’associante deve evidentemente ottenere il consenso degli associati ogni qual volta desideri coinvolgere nell’affare che li riguarda ulteriori soggetti con la stessa formula di partecipazione agli utili. Recita infatti l’art. 2550 c.c. “salvo patto contrario, l’associante non può attribuire partecipazioni per la stessa impresa o per lo stesso affare ad altre persone senza il consenso dei precedenti associati”.