Pausa pranzo troppo spesso allungata? Si rischia il licenziamento – guida rapida
- L’iter giudiziario
- I motivi del ricorso in Cassazione
- La decisione della Corte di Cassazione
- Il nostro commento
Con l’ordinanza n. 9081 del 6 aprile 2025, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato da un lavoratore con qualifica di quadro contro la sentenza della Corte d’Appello di Napoli che aveva confermato la legittimità del suo licenziamento per giusta causa.
La vicenda rappresenta un importante precedente sul tema dell’osservanza dell’orario di lavoro da parte dei quadri aziendali e sulle condotte che possono giustificare la massima sanzione disciplinare.
In particolare, il caso riguarda un quadro di 2° livello, assunto presso un’azienda e licenziato per giusta causa il 26 febbraio 2020 a seguito di contestazioni disciplinari relative alla sistematica inosservanza dell’orario di lavoro.
Secondo quanto emerso nel procedimento, il dipendente aveva reiteratamente effettuato pause pranzo di circa due ore, invece dei prescritti 60 minuti, e/o anticipato l’uscita dall’azienda, riducendo illegittimamente il tempo giornaliero di presenza al lavoro, stabilito contrattualmente in otto ore.
Le irregolarità erano state rilevate in ben ventisei giornate lavorative, nel periodo compreso tra gennaio 2020 e il 14 febbraio 2020. L’azienda, prima di procedere con la contestazione formale del 18 febbraio 2020, aveva già bonariamente richiamato il lavoratore nel dicembre 2019, invitandolo a rispettare l’orario di lavoro contrattuale.
L’iter giudiziario
Il procedimento ha attraversato tutti i gradi di giudizio. Riassumiamoli in brevità.
In primo grado, il Tribunale di Nola ha rigettato il ricorso in opposizione presentato dal lavoratore ex legge n. 92 del 2012 (c.d. Legge Fornero), confermando la legittimità del licenziamento.
In appello, la Corte d’Appello di Napoli ha confermato la sentenza di primo grado con la sentenza n. 2607/2023, ritenendo che i fatti addebitati erano pacificamente accertati e dimostrati dalla prova testimoniale e che il lavoratore, nonostante la qualifica di quadro professionale, era sottoposto all’osservanza di un orario di lavoro, registrato attraverso il sistema “Single Badging”.
Ancora, la Corte affermava che non risultava alcuna autorizzazione del responsabile per permessi o assenze e che il comportamento non poteva essere inquadrato tra quelli puniti dalla contrattazione collettiva con sanzione conservativa. Era dunque irrilevante l’assenza di recidiva formale, poiché la condotta era considerata di per sé sufficientemente grave da legittimare il licenziamento per giusta causa.
Il lavoratore ha quindi presentato ricorso in Cassazione, contestando la decisione della Corte d’Appello con due motivi principali.
I motivi del ricorso in Cassazione
Il ricorrente ha impugnato la sentenza di secondo grado sulla base di due motivi fondamentali.
Con il primo motivo ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 17 del D.Lgs. n. 66/2003, sostenendo che, in virtù della sua qualifica di quadro professionale di 2° livello, non dovesse essere assoggettato a stringenti vincoli orari. La tesi difensiva si basava sull’interpretazione della norma che prevede deroghe in materia di orario di lavoro per il personale direttivo dell’azienda, categoria nella quale il ricorrente riteneva di rientrare.
Con il secondo motivo il ricorrente ha contestato la violazione degli artt. 23 e 24 del Contratto Collettivo Specifico di Lavoro (CCSL) e dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, sostenendo che la sanzione espulsiva senza preavviso fosse illegittima e sproporzionata e che il comportamento contestato sarebbe stato inquadrabile nelle fattispecie punite con sanzione conservativa dall’art. 23 lett. b) del CCSL.
Lamentava inoltre che il medesimo comportamento era stato sostanzialmente tollerato dall’azienda nei mesi precedenti, che la contestazione disciplinare sarebbe stata intempestiva e che la condotta non poteva essere considerata sistematica e reiterata.
La decisione della Corte di Cassazione sulla pausa pranzo allungata
La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i motivi di ricorso, confermando la legittimità del licenziamento.
Sul primo motivo
Sul primo motivo, la Suprema Corte ha ritenuto di esprimere un’opinione di infondatezza. Ha chiarito in particolare che l’art. 17 del D.Lgs. n. 66/2003 esclude dall’applicazione delle norme sull’orario di lavoro i dirigenti, il personale direttivo delle aziende o altre persone con potere di decisione autonomo. Il ricorrente, pur essendo inquadrato come quadro professionale, non rientrava in queste categorie, non risultando che avesse poteri decisionali autonomi o che svolgesse funzioni direttive quale preposto a singoli servizi o sezioni dell’azienda.
Ancora, la Corte specifica che la contrattazione collettiva applicabile (CCSL, art. 10, Titolo II) prevedeva espressamente che “l’orario di lavoro giornaliero dei lavoratori addetti al turno centrale (quadri, impiegati e operai)” fosse regolamentato, confermando che anche i quadri sono soggetti a orario e che il sistema “Single Badging” adottato dall’azienda, che registrava le presenze, riguardava anche il personale Professional e non aveva modificato l’orario di lavoro contrattualmente previsto.
Infine, la Suprema Corte chiariva come lo stesso lavoratore fosse consapevole dell’obbligo di osservare un orario di lavoro, tanto che nelle sue giustificazioni aveva sostenuto di aver comunque lavorato per un orario complessivamente superiore a quello previsto.
Sul secondo motivo
Anche il secondo motivo è stato ritenuto infondato. In particolare, la Corte ha ribadito che in tema di licenziamento per giusta causa, la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante per il giudice, che deve valutare la gravità e proporzionalità della condotta tenendo conto degli elementi concreti del caso.
Di contro, risulta essere invece vincolante la previsione collettiva quando per una determinata condotta è prevista espressamente una sanzione conservativa, a meno che non vi siano elementi aggravanti o non sia accertato che le parti collettive non intendessero escludere la possibilità della sanzione espulsiva per i casi più gravi.
Nel caso specifico, l’art. 23 lett. b) del CCSL punisce con sanzione conservativa il singolo episodio di ritardo o la singola sospensione dal lavoro, mentre nella fattispecie in esame si riscontrava una serie sistematica e reiterata di violazioni dell’orario di lavoro, caratterizzate da indifferenza alle regole aziendali e al precedente richiamo informale.
Infine, non sussisteva intempestività della contestazione disciplinare, poiché questa si riferiva al comportamento tenuto tra gennaio e febbraio 2020, e non al richiamo verbale del dicembre 2019. Né la condotta del lavoratore aveva determinato una irrimediabile lesione dell’elemento fiduciario su cui si fonda il rapporto di lavoro, inteso come interesse del datore all’esatto e puntuale adempimento della prestazione.
L’orario di lavoro dei quadri e la pausa pranzo
La sentenza offre diversi spunti di discussione. Cominciamo con l’evidenziare che la Corte precisa i confini dell’esenzione dall’orario di lavoro prevista dall’art. 17 del D.Lgs. n. 66/2003. Per beneficiare di tale esenzione non è sufficiente la qualifica formale di quadro, ma occorre svolgere effettivamente funzioni direttive o disporre di autonomia decisionale. Si tratta di un’interpretazione sostanzialistica che valorizza il contenuto concreto delle mansioni rispetto all’inquadramento formale.
La pronuncia chiarisce che l’indennità di funzione eventualmente riconosciuta ai quadri incide sul compenso del lavoro straordinario, ma non sull’obbligo di rispettare l’orario di lavoro ordinario. Un aspetto particolarmente rilevante nelle organizzazioni aziendali moderne, dove spesso i confini tra le diverse categorie di lavoratori tendono a sfumarsi.
La proporzionalità della sanzione disciplinare e la pausa pranzo troppo spesso allungata
La sentenza ribadisce inoltre il principio secondo cui il giudice, nel valutare la legittimità di un licenziamento, non è vincolato alle previsioni della contrattazione collettiva, ma deve considerare tutti gli elementi concreti della fattispecie. Il principio, pur consolidato nella giurisprudenza, è talvolta oggetto di critica in quanto potrebbe introdurre elementi di incertezza nell’applicazione delle sanzioni disciplinari.
In questo caso, la Corte opera una distinzione tra la condotta sanzionata dal CCSL con misure conservative (il singolo episodio di ritardo) e quella contestata al lavoratore (una reiterata e sistematica violazione dell’orario di lavoro). Una distinzione che sottolinea l’importanza dell’elemento soggettivo e della persistenza nel tempo della condotta inadempiente.
La rilevanza del precedente richiamo informale
Un altro aspetto interessante della sentenza riguarda il valore attribuito al precedente richiamo informale ricevuto dal lavoratore nel dicembre 2019. Sebbene non configurasse una recidiva in senso tecnico, tale circostanza è stata considerata rilevante per valutare l’atteggiamento complessivo del dipendente, che aveva perseverato nella condotta nonostante l’avvertimento.
L’elemento evidenzia come, ai fini della valutazione della giusta causa, possano assumere importanza anche circostanze precedenti non formalizzate in sanzioni disciplinari, purché dimostrino la consapevolezza del lavoratore circa l’illegittimità della propria condotta.
L’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro
La Corte ribadisce la centralità dell’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro, definito come “concreto interesse del datore all’esatto e puntuale adempimento futuro della prestazione da parte del lavoratore”. La definizione sottolinea la natura prospettica della fiducia, che guarda non solo alla valutazione delle condotte passate, ma anche alla prevedibilità dei comportamenti futuri.
Nel caso specifico, la reiterazione della violazione dell’orario di lavoro, nonostante il richiamo, è stata considerata indicativa di un atteggiamento che comprometteva la possibilità di fare affidamento sul corretto adempimento futuro delle obbligazioni contrattuali.
Il nostro commento
La sentenza n. 9081/2025 della Cassazione offre importanti spunti di riflessione sul tema dell’orario di lavoro e delle sanzioni disciplinari, con particolare riferimento alla posizione dei quadri aziendali.
Il rigetto del ricorso conferma che anche i lavoratori con qualifiche elevate sono tenuti al rispetto dell’orario di lavoro quando previsto dalla contrattazione collettiva e dalle disposizioni aziendali, a meno che non svolgano effettivamente funzioni direttive o godano di autonomia decisionale.
Inoltre, la pronuncia ribadisce che la valutazione della giusta causa di licenziamento richiede un’analisi complessiva della condotta del lavoratore, che tenga conto non solo della sua corrispondenza alle previsioni della contrattazione collettiva, ma anche di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi rilevanti, inclusa la reiterazione nel tempo e l’atteggiamento complessivo dimostrato.
Infine, la sentenza evidenzia l’importanza della correttezza e della buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro, elementi che assumono particolare rilevanza nelle posizioni di maggiore responsabilità, dove ci si attende dal lavoratore un comportamento esemplare anche nel rispetto delle regole organizzative.
Il caso offre quindi un prezioso orientamento per aziende e lavoratori nella gestione dell’orario di lavoro e nella valutazione della proporzionalità delle sanzioni disciplinari, contribuendo a chiarire i confini di legittime aspettative reciproche in un ambito, quello dell’organizzazione del tempo di lavoro, sempre più complesso e in evoluzione nel moderno contesto produttivo.