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Home » Civile » Famiglia » La convivenza di fatto: tutela in caso di separazione

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La convivenza di fatto: tutela in caso di separazione

Avv. Beatrice Bellato consulenzalegaleitalia.it La convivenza di fatto: tutela in caso di separazione
Convivenza di fatto
Avv. Beatrice Bellato

La convivenza di fatto: tutela in caso di separazione – indice:

  • I conviventi
  • Il regime patrimoniale
  • Presenza o meno del contratto
  • Tutele in presenza di figli

I conviventi di fatto

La Legge 20 maggio 2016 n. 76 (c.d. Legge Cirinnà) fornisce per la prima volta una specifica regolamentazione delle “convivenze di fatto”. La legge specifica che conviventi di fatto sono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

Il legislatore ha introdotto una serie di novità, che si rendevano necessarie a fronte del mutato contesto sociale in cui viviamo. Tra le più importanti si ricordano:

  • in caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali;
  • sono riconosciuti specifici diritti per quanto concerne l’assegnazione degli alloggi di edilizia popolare;
  • si garantisce la tutela al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa familiare dell’altro convivente;
  • è prevista la possibilità, per ciascun convivente di fatto, di designare l’altro quale suo rappresentate in caso di malattia, ovvero per le decisioni concernenti la donazione di organi, le modalità di trattamento della salma e le celebrazioni funerarie;
  • è previsto il diritto di abitazione a favore del convivente superstite, qualora l’altro convivente di fatto fosse proprietario della casa adibita a residenza comune.

In caso di cessazione della convivenza di fatto l’articolo 1 comma 65 della Legge prevede che il giudice possa sancire il diritto del convivente, in stato di bisogno e non in grado di provvedere al proprio mantenimento, a ricevere dall’altro convivente gli alimenti. In tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’articolo 438 co. 2 c.c.

Il diritto di abitazione a favore del convivente superstite

In caso di morte del convivente proprietario della casa adibita a residenza comune, l’art. 1 co. 42 della Legge stabilisce che il convivente di fatto superstite abbia diritto di continuare ad abitare in quella casa per due anni o per un periodo pari alla convivenza, se superiore a due anni, e comunque non oltre i cinque anni dalla morte dell’altro convivente. Qualora nella stessa abitazione coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni dalla morte. Questo diritto di abitazione viene meno qualora il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto.

Il contratto di convivenza e il regime patrimoniale dei conviventi di fatto

Il regime patrimoniale della convivenza è rimesso alla libera determinazione delle parti. A tal fine, l’articolo 1 comma 50 della Legge 76/2016 prevede che i conviventi di fatto possano disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza.

Si tratta di un contratto formale che deve essere redatto in forma scritta a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un Notaio o da un Avvocato, che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Il contratto di convivenza reca l’indicazione dell’indirizzo indicato da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo. Può, inoltre, contenere:

  • l’indicazione della residenza;
  • le modalità di contribuzione alla necessità della vita in comune
  • il regime patrimoniale della comunione dei beni o della separazione dei beni.

Il contratto non può essere sottoposto a termine o a condizione. È nullo (nullità insanabile e assoluta) nei seguenti casi:

  • qualora sia stato concluso nonostante la presenza di vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza relativo a uno dei contraenti;
  • quando lo hanno stipulato soggetti non qualificabili come conviventi di fatto ai sensi dell’art. 1 co. 36 L. 76/2016;
  • qualora sia stipulato da un minore di età, da un soggetto interdetto giudizialmente ovvero qualora uno dei soggetti contraenti sia stato condannato per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altro.

Quando cessa: la tutela della convivenza di fatto in presenza e in assenza di un contratto di convivenza

Può accadere che uno dei due conviventi voglia cessare la convivenza. A tal proposito bisogna distinguere a seconda che sia stato o meno stipulato il contratto di convivenza.

Se cessa la convivenza in presenza del contratto

Se è stato stipulato il contratto di convivenza la norma di riferimento è l’articolo 59 della Legge 76/2016 che disciplina la risoluzione del contratto di convivenza. Il contratto può risolversi non solo per accordo delle parti ma anche per recesso unilaterale. Qualora la risoluzione avvenga per accordo delle parti o per recesso unilaterale, è necessario il rispetto degli oneri di forma prescritti dall’art. 1 co. 51 della Legge 76/2016.

Qualora i contraenti avessero adottato il regime della comunione dei beni, la risoluzione del contratto di convivenza determina lo scioglimento della comunione. In tal caso si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro I del codice civile.

Quando non c’è il contratto

Quando, invece, non si è stipulato il contratto occorrerà applicare i principi elaborati prima dell’entrata in vigore della Legge 76/2016. La giurisprudenza aveva posto l’accento sulla valorizzazione dei reciproci apporti di natura economica, lavorativa o anche sentimentale, verificatisi durante la convivenza, nonché delle aspettative che legittimamente sorgono dal protrarsi del menage familiare. Gli approdi della giurisprudenza possono essere così sintetizzati:

  • il ricorso all’art. 2034 c.c. impedisce che, una volta cessata la convivenza, il convivente che abbia fornito l’assistenza materiale al proprio partner possa legittimare la restituzione di quanto versato durante la convivenza;
  • gli acquisti fatti durante la convivenza vengono parificati a quelli fatti da due coniugi sposati in separazione dei beni. Ogni acquisto compiuto dal convivente, pertanto, diventa di proprietà esclusiva di colui che lo ha posto in essere;
  • se uno dei due conviventi ha prestato attività lavorativa in favore dell’altro, la giurisprudenza opta per la presunzione di gratuità della prestazione lavorativa effettuata da un convivente a vantaggio dell’altro. In questo modo si configura un rapporto di lavoro gratuito, se può essere dimostrata la comunanza di vita e di interessi tra i conviventi;
  • se invece non si riesce a dimostrare un rapporto di lavoro subordinato (si pensi, ad esempio, all’attività domestica compiuta da uno dei conviventi in favore del nucleo familiare), la giurisprudenza ha ipotizzato l’applicabilità dell’ingiustificato arricchimento (articolo 2041 c.c.). Si ritiene giustificato l’arricchimento in presenza di una sinallagmaticità tra le prestazioni dei conviventi. L’attività domestica svolta da uno dei conviventi infatti deve essere controbilanciata dall’adempimento dell’obbligazione naturale di contribuire agli oneri familiari gravante sull’altro.

Chiarito cosa accade sia in presenza sia in assenza di un contratto di convivenza, è evidente che in caso di contrasto tra i conviventi, bisognerà ricorrere all’autorità giudiziaria.

Che tutela della convivenza di fatto è prevista in presenza di figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti

Più problematica è l’ipotesi di cessazione della convivenza di fatto in presenza di figli minori. In tal caso, sarà necessario regolamentare non solo i rapporti patrimoniali dei conviventi, ma anche il collocamento e il mantenimento della prole.

L’ordinamento prevede due rimedi: l’uno stragiudiziale e l’altro giudiziale.

Il rimedio stragiudiziale consiste nella mediazione familiare. Questa ha lo scopo principale di conciliare le parti: la conciliazione può essere intesa sia come riappacificamento della coppia (con superamento della crisi) sia come supporto alla coppia.

Il rimedio giudiziale consiste in un ricorso al Tribunale. Bisogna distinguere a seconda che i conviventi siano d’accordo sulle condizioni alle quali attuare la “separazione”, oppure si trovino in disaccordo.

I conviventi di fatto, ad oggi, non possono regolamentare la cessazione della convivenza attraverso la procedura di negoziazione assistita, a differenza dei coniugi.

La mediazione familiare

Tale rimedio stragiudiziale viene generalmente gestito da un terapeuta (con competenze nella gestione dei conflitti) e dai legali specializzati nel diritto di famiglia e nelle tematiche di gestione della crisi familiare. La serenità dei figli riveste  un ruolo centrale nella mediazione familiare. Spesso, quindi, li si coinvolge nella fase di mediazione, al fine di comprendere le dinamiche familiari e con chi essi vogliono rimanere.

La mediazione può avere due risultati: la risoluzione della crisi, oppure la rottura definitiva, che viene siglata in un accordo. Le condizioni della separazione (che equivale a una separazione consensuale dei coniugi) vengono trascritte in una scrittura privata che ha effetti obbligatori tra le parti. A tutela dei figli, tuttavia, il legale (o anche la parte personalmente) può provvedere al deposito di tale accordo in Tribunale in modo da dotare di efficacia esecutiva l’accordo così raggiunto. Si incardinerà quindi una procedura di disamina dell’accordo raggiunto (al fine di valutare l’assenza di condizioni contra legem o, comunque contrarie all’interesse dei minori o lesive dei diritti di uno delle due parti). Verificata la correttezza dello stesso, il legale provvederà (previo visto del Pubblico Ministero) a “omologare” l’accordo raggiunto in sede di mediazione.

Tale procedimento è necessario per tutelare i figli (che non sono parti dell’accordo). La scrittura privata, infatti, ha solo valenza tra le parti con la conseguenza che, in caso di inadempienza, la parte diligente non potrà agire esecutivamente per ottenere l’adempimento della prestazione.

L’esperimento della procedura di mediazione familiare non è obbligatorio: se il legale si accorge che la crisi dei conviventi è insanabile, si procede direttamente in sede giudiziale.

Il ricorso al Tribunale in caso di accordo

Nel caso in cui i conviventi si trovino in accordo sulle condizioni di “separazione”  possono presentare al Tribunale ordinario un ricorso congiunto ai sensi dell’art. 316 codice civile. In tal caso, i genitori non dovranno neppure comparire davanti al Giudice e l’esame del Tribunale si limiterà alla verifica dell’adeguatezza degli accordi raggiunti dai genitori. Il tribunale procede in tal modo nell’interesse della prole minore e alla luce del disposto normativo di cui all’articolo 337-ter, comma secondo, codice civile. L’accordo verrà poi recepito dal Collegio.

La tutela della convivenza di fatto se i conviventi sono in disaccordo

Nel caso di disaccordo, invece, è previsto il ricorso ai sensi degli articoli 316 – 317 bis codice civile. Il Presidente del Tribunale non fissa (come accade invece per i procedimenti di separazione e divorzio) udienza, bensì concede due termini. L’uno per la parte ricorrente per la notifica del ricorso e l’altro alla parte resistente per il deposito di una memoria difensiva di costituzione. Il Collegio poi può:

  • fissare direttamente udienza dinanzi a sé, non ritenendo sussistenti i presupposti per formulare una proposta conciliativa;
  • rimettere le parti dinanzi al giudice delegato con il compito di suggerire ai genitori una possibile soluzione conciliativa, riservandosi di intervenire successivamente, nel caso di fallimento del tentativo di conciliazione;
  • pronunciare provvedimenti provvisori, in presenza di conclusioni parzialmente conformi dei genitori (es. entrambi chiedono l’affido condiviso).

Il procedimento prevede, quindi, una fase conciliativa innanzi ad un giudice delegato e, solo in caso di fallimento di quest’ultima, una fase contenziosa innanzi al Collegio.

La fase conciliativa potrebbe, pertanto, concludersi con un accordo dei genitori, che il Collegio recepirà in seguito. Si tratta di una sorta di omologa, in analogia con quanto avviene nei procedimenti di separazione e divorzio.

Tale accordo potrebbe corrispondere alla proposta del giudice designato oppure potrebbe consistere in una soluzione totalmente o parzialmente diversa, elaborata dai genitori con l’assistenza degli avvocati. Se la fase conciliativa non porta a nessuna composizione bonaria, gli atti vengono rimessi al Collegio che provvede alla definizione giudiziale del procedimento.

Avv. Bellato – diritto di famiglia e matrimoniale, separazione e divorzio

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