Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne – indice:
- Il diritto
- La cessazione del diritto
- L’assegnazione della casa
- La revoca dell’assegno
- Gli indirizzi
- Il principio di autoresponsabilità
- La crisi occupazionale
- La discrezionalità
- Il diritto allo studio
- L’onere della prova
- L’entità dell’assegno
Il raggiungimento della maggiore età individua ai sensi della legge il momento in cui un figlio acquista la capacità di agire e quella di autodeterminarsi. È suo dovere infatti, dopo aver completato con successo un ciclo di studi, cercare un’occupazione che gli consenta di raggiungere quella “giusta retribuzione” sancita dall’articolo 36 della Costituzione. Tale traguardo coincide con il venir meno del diritto del figlio maggiorenne al mantenimento da parte del genitore salvo sia in grado di provare che elementi da lui indipendenti abbiano impedito il raggiungimento della sua non autosufficienza economica.
Questi principi sono peraltro il riassunto di quanto affermato dalla nostra Suprema Corte di giustizia nella recente ordinanza del 14 agosto 2020, n. 17183. In tale occasione i giudici hanno dato seguito a dei precedenti orientamenti giurisprudenziali, di cui hanno fatto espressa menzione, in tema di mantenimento del figlio maggiorenne. La decisione, cristallizzata nell’ordinanza in oggetto, rivela l’indirizzo di tale Corte secondo cui il figlio maggiorenne, sebbene non economicamente autosufficiente, non possa pretendere di ricevere l’assegno di mantenimento senza limiti di tempo.
Il collegio ha motivato ampiamente la propria decisione, discorrendo una serie di punti che di seguito verranno esposti. Ha inoltre analizzato la norma, l’articolo 337-septies del codice civile, introdotto dalla legge n. 54/2006, utile a capire la logica sottostante alle regole sul mantenimento del figlio maggiorenne. Secondo tale norma fonte del diritto al mantenimento del figlio maggiorenne “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico”.
L’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne
L’assegno di mantenimento è un’obbligazione pecuniaria che nasce tra i coniugi o tra un coniuge e i figli a seguito di separazione o divorzio. L’obbligato alla corresponsione dell’assegno a seguito di separazione è solitamente il genitore non collocatario a beneficio dei figli. Lo è invece il coniuge che ha un reddito maggiore a beneficio del coniuge economicamente svantaggiato.
Il codice civile, agli articoli 147 e 315-bis del codice civile, riconosce al figlio il diritto di essere mantenuto dai genitori finché non raggiunga l’autosufficienza economica. Il giudice ha l’obbligo di tenere conto di tale elemento nel calcolare l’assegno di mantenimento.
Il diritto al mantenimento del figlio non cessa automaticamente quando questi è in astratto in grado di trovarsi un’occupazione. Fino a quando allora il genitore gravato dall’obbligo di corrispondere l’assegno rimane obbligato ad eseguire tale prestazione in favore del figlio che ha raggiunto la maggiore età? Lo chiarisce la recente ordinanza della Corte di Cassazione di cui si parlava nell’introduzione e che costituisce parte integrante dell’argomento ai fini di una più completa comprensione.
Casi in cui cessa il diritto all’assegno
Prima dell’ordinanza di cui sopra, i casi in cui la giurisprudenza ha stabilito che il figlio perda il diritto a percepire l’assegno di mantenimento sono i seguenti:
- Quando si rende economicamente emancipato dai genitori ed è dunque in grado di mantenersi e provvedere a sé stesso in modo autonomo;
- Se intenzionalmente non raggiunge l’autosufficienza economica;
- Se il non raggiungimento dell’autosufficienza economica si protrae oltre certi limiti di tempo dalla conclusione del ciclo di studi o dal compimento della maggiore età (Così Cassazione con ordinanza 19135 del 2019).
Con l’ordinanza 17183/2020 la Suprema Corte riprende questo tema in maniera approfondita. In particolare rende più netti i casi in cui il figlio maggiorenne perde il diritto all’assegno di mantenimento.
L’assegnazione della casa familiare
Dell’assegnazione della casa familiare si occupa l’articolo 337-sexsies del codice civile. Il tema, riformato dal decreto legislativo 154/2013, viene così disciplinato: “Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio”.
Con riguardo all’ultimo periodo, c’è un ulteriore ipotesi di cessazione del diritto all’assegnazione della casa familiare non citato nella norma. È il caso in cui la prole cessi di abitare con il genitore assegnatario.
Precedenti orientamenti giurisprudenziali basavano le proprie fondamenta, ai fini della non perdita dell’assegnazione, sulla necessità di una frequentazione regolare della casa da parte del figlio. Ripresi tali orientamenti nella recente ordinanza, i giudici hanno affermato infatti che “non può affermarsi la convivenza del figlio che, in una data unità temporale, particolarmente estesa, risulti obiettivamente assente da casa, sia pure per esigenze lavorative o di studio, e che sebbene vi ritorni regolarmente non appena possibile. L’assenza per tutto il periodo considerato e la rarità dei rientri per quanto regolari, non possono essere controbilanciati dalla sola ipotetica regolarità del ritorno, altrimenti il collegamento con l’abitazione diverrebbe troppo labile, sconfinando nel mero rapporto di ospitalità”.
Il caso: un figlio trentenne e il diritto all’assegno di mantenimento
Una donna, madre di figlio con più di trent’anni, ricorre in Cassazione contro la decisione della Corte di Appello che revocava l’assegno di mantenimento in favore del figlio a carico dell’ex coniuge nonché l’assegnazione della casa familiare. La corresponsione dell’assegno aveva già subito una “penalità” in sede di primo grado di giudizio in cui il giudice aveva disposto la riduzione dell’importo di un centinaio di euro.
La memoria della donna si basa su due motivi di ricorso:
- l’assunto del giudice del raggiungimento dell’autosufficienza economica del figlio sulla base dei documenti prodotti. Ad avviso della donna le somme indicate nei documenti non corrispondono a quelle effettivamente percepite;
- la condizione di precarietà della posizione professionale del figlio quale, nonostante il compimento del trentatreesimo anno di età, quella di insegnante non di ruolo. Il giovane con tale impiego non avrebbe raggiunto quella indipendenza economica che gli consentirebbe di autodeterminarsi rispetto ai propri genitori.
Il collegio, dando ragione al giudice di secondo grado, ritiene inammissibili e infondati entrambi i motivi del ricorso. Annuncia già preliminarmente parte del suo indirizzo secondo cui il figlio che ha raggiunto la maggiore età e soprattutto che ha oltrepassato il trentesimo anno di età, è da considerarsi capace di mantenersi salvo non sia affetto da deficit o provi che determinate circostanze hanno impedito la sua indipendenza.
L’attuale indirizzo della Corte sul mantenimento del figlio maggiorenne
È molto chiaro il collegio nel dettare il proprio indirizzo. Alcune fra le parole maggiormente significative sono le seguenti “l’obbligo dei genitori non possa protrarsi sine die e che, pertanto – a parte le situazioni di minorazione fisica o psichica altrimenti tutelate dall’ordinamento – esso trovi il suo limite logico e naturale: allorquando i figli si siano già avviati ad un’effettiva attività lavorativa tale da consentir loro una concreta prospettiva d’indipendenza economica; quando siano stati messi in condizioni di reperire un lavoro idoneo a procurar loro di che sopperire alle normali esigenze di vita; od ancora quando abbiano ricevuto la possibilità di conseguire un titolo sufficiente ad esercitare un’attività lucrativa, pur se non abbiano inteso approfittarne; o, comunque, quando abbiano raggiunto un’età tale da far presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a se stesso“.
Età ed autoresponsabilità del figlio
L’ordinanza richiama più volte il cosiddetto principio di autoresponsabilità. Si tratta di un principio che la Corte afferma di aver utilizzato non soltanto con riguardo al diritto di famiglia ma anche in altri settori.
Ma cosa si intende per autoresponsabilità? Si intende la capacità del figlio di operare delle scelte che rendano indipendente se stesso, ovvero chi vanti dei diritti della stessa dignità dei suoi (i genitori). È per questo che il figlio maggiorenne ha il dovere di cercare attivamente un’attività lavorativa terminato il percorso di studi. Almeno entro tempi ragionevoli dalla sua portata a termine. Con riguardo al tipo di attività lavorativa, l’autoresponsabilità emerge anche nel saper adattare le proprie ambizioni alle concrete offerte del mercato del lavoro.
Viene in rilievo in questo senso anche l’età del giovane. Più si allontanerà da quella maggiore più sarà considerato adulto e più vicino all’esaurimento del suo diritto al mantenimento. Più volte infatti la Corte ha sottolineato che il giudice, nel valutare il diritto all’assegno di mantenimento, debba tenere conto di tale parametro. Il riferimento all’età si rileva quando il giudice deve valutare il riconoscimento dell’assegno con “rigore proporzionalmente crescente, in rapporto all’età dei beneficiari, in modo da escludere che tale obbligo assistenziale, sul piano giuridico, possa essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura”. E infine afferma che “oltre tali “ragionevoli limiti”, l’assistenza economica protratta ad infinitum “potrebbe finire col risolversi in forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”.
La crisi occupazionale odierna per i giovani
I giudici del terzo grado non giustificano le pretese del figlio che motiva la propria incapacità di autosufficienza economica sulla crisi attuale del mercato del lavoro. Tale condizione è riconosciuta e tenuta in considerazione ma la Corte adita non la ritiene accettabile, ai fini dell’obbligo di mantenimento. Il rifiuto di determinate posizioni lavorative perché non coerenti con il percorso di studi o non confacenti alle proprie aspettative professionali impediscono l’espressione della cosiddetta “capacità lavorativa”. Questa si intende, afferma il Collegio, come “adeguatezza a svolgere un lavoro, in particolare un lavoro remunerato. Essa si acquista con la maggiore età, quando la legge presuppone raggiunta l’autonomia ed attribuisce piena capacità lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro, tanto che si gode della capacità di agire (e di voto)”.
La Corte, pertanto, riprendendo un orientamento precedente, afferma rigidamente che c’è colpa del figlio quando aspetta o rifiuta posti di lavoro che non corrispondono perfettamente alle sue aspettative. Fa salvo il caso in cui vi siano delle ragioni fondate ad un comportamento così tenuto.
E conclude ritenendo che “In sostanza, è esigibile l’utile attivazione del figlio nella ricerca comunque di un lavoro, al fine di assicurarsi il sostentamento autonomo, in attesa dell’auspicato reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni; non potendo egli, di converso, pretendere che a qualsiasi lavoro sia adatti soltanto, invece sua, il genitore“.
La discrezionalità del giudice
Analizzando l’articolo 337-septies del codice civile il collegio giudicante si sofferma sulla formulazione adottata dal legislatore. Rinviene infatti come quest’ultimo abbia voluto dare ampio margine di discrezionalità al giudice. Ha stabilito infatti che questi “può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico”.
Si legge nell’ordinanza che l’obbligo di mantenimento posto dalla norma “non è posto direttamente ed automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le “circostanze” del caso concreto“. Anzi, l’obbligo verrà imposto dal giudice non soltanto in relazione alla non autosufficienza economica del figlio ma anche in relazione ad altri fattori. Ciò purché non vi sia alcun automatismo dell’applicazione del diritto al mantenimento del figlio maggiorenne.
Spesso infatti tale obbligo non trova fondamento. I genitori, una volta che i figli raggiungono la maggiore età, diventano privi di qualsiasi autorità nei loro confronti. Ovvero non riescono ad esercitare verso di questi alcun potere disciplinare. L’obbligo pertanto dev’essere giustificato almeno da un comprovato impegno del figlio a rendersi indipendente dal genitore. Il completamento di un percorso professionale o la ricerca di un impiego ne costituisce prova.
Il diritto allo studio e il mantenimento del figlio maggiorenne
Il nostro ordinamento giuridico tutela la formazione culturale ovvero il diritto dei figli a ricevere, ove possibile, un’adeguata istruzione. Su tale presupposto, la Corte esaminatrice riconosce il valore dell’opportunità dei figli a svolgere un percorso di studi anche di lunga durata. Si intende tuttavia che tale percorso sia tenuto con regolarità e impegno da parte del figlio che abbia raggiunto la maggiore età. Il giovane inoltre dovrebbe essere in grado, nella scelta di tale percorso, di valutare:
- le proprie effettive capacità di studio e di impegno. L’impegno, afferma la Corte, sarà maggiore allorché il giovane abbia conseguito una borsa di studio o comunque svolga regolarmente il ciclo di studi. In tal caso sarà meritevole di essere mantenuto più a lungo nel tempo;
- che riscontro hanno le sue aspirazioni in un futuro impiego lavorativo in relazione al mercato del lavoro;
- le capacità economiche dei propri genitori, non potendo loro imporre un eccessivo sacrificio.
Il Supremo Collegio infatti non nega ma anzi pone in risalto “il diritto del figlio all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, “tenendo conto” (e, a norma dei novellati art. 147 c.c. e art. 315-bis c.c., comma 1, “nel rispetto…”) delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, com’è reso palese dal collegamento inscindibile tra gli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione”.
Conclude tuttavia, in linea con l’orientamento mostrato in tutto il ragionamento, che il diritto al mantenimento deve incontrare un limite. Tale limite è in relazione alla durata del ciclo di studi. Non nega si debba tuttavia lasciare al giovane il tempo mediamente necessario per inserirsi nell’attuale contesto economico e trovare un’occupazione lavorativa.
Ritiene infine che il giovane che approfitti del diritto al mantenimento lui riconosciuto ne abusi.
Buona fede oggettiva e principio di abuso del diritto
Ove manchi da parte del giovane l’impegno nel concludere il ciclo di studi, ovvero nella ricerca attiva di un lavoro al termine di questo, i giudici parlano di abuso del diritto.
Si legge infatti nell’ordinanza che “il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non può sorgere già “abusivo” o “di mala fede”: onde, perché esso sia correttamente inteso, occorre che la concreta situazione economica non sia il frutto di scelte irragionevoli e sostanzialmente volte ad instaurare un regime di controproducente assistenzialismo, nel disinteresse per la ricerca della dovuta una indipendenza economica“.
Si ricorda, fra le altre cose, che non solo i genitori hanno degli obblighi e dei doveri verso i figli ma anche questi ultimi nei confronti dei genitori. Ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 315 del codice civile infatti “Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa“.
Quando si verifica un comportamento di questo tipo inoltre, sostengono i giudici, il ragazzo può essere ritenuto responsabile dell’inadempimento di tale suo dovere.
L’onere della prova
Verso la conclusione della trattazione i giudici si soffermano sul meccanismo dell’onere della prova del diritto al mantenimento. L’onere, dichiarano, spetta inevitabilmente al figlio che domanda il mantenimento. Nulla da dimostrare è imposto a carico del genitore con riguardo alle capacità economiche del figlio.
Affinché pertanto il figlio voglia vedersi riconosciuto il diritto e, quindi, la domanda accolta deve dimostrare:
- la mancanza di indipendenza economica;
- “di aver curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un lavoro“.
Nel dare questo orientamento sul riparto dell’onere della prova la Suprema Corte afferma che “Ciò è coerente con il consolidato principio generale di prossimità o vicinanza della prova, secondo cui la ripartizione dell’onere probatorio deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio riconducibile all’art. 24 Cost, ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova”.
La prova sarà chiaramente ammessa dal giudice soltanto quando il figlio mostri la mancata intenzione nel procurarsi lo stato di non autosufficienza economica. E quindi, ad esempio, non abbia mostrato inerzia nella ricerca di un lavoro oppure non abbia tenuto uno stile di vita inadeguato o inconcludente.
Assegno di mantenimento del figlio maggiorenne: entità
L’obbligazione di mantenimento del figlio maggiorenne, conclude la Corte nel suo ragionamento, può essere assunto anche volontariamente dal genitore indipendentemente quanto fino ad ora esposto. È operativo e sacro infatti all’interno della famiglia il principio della autodeterminazione.
Per quanto attiene l’entità dell’assegno la Suprema Corte ha stabilito che “L’entità dell’assegno viene qui commisurata ai bisogni primari ed essenziali, per tutto il tempo in cui ciò sia necessario, posto che il relativo diritto viene meno solo se cessino i requisiti richiesti per la sua erogazione; onde il genitore non interromperà comunque l’adempimento della prestazione de qua, che permane dopo la maggiore età”.
In generale comunque il genitore non collocatario, con un reddito mensile pari a 1000-2000 euro, è tenuto a versare un assegno al genitore collocatario di importo compreso tra i 250 e i 300 euro circa.
Avv. Bellato – diritto di famiglia e matrimoniale, separazione e divorzio