Esercizio abusivo della professione di giornalista – guida rapida
- La nozione di giornalista
- La nozione restrittiva e quella più allargata
- Il giudizio della Corte: il ricorso è inammissibile
- L’orientamento giurisprudenziale
- Il caso in esame
Con recente sentenza n. 8956/2023 la Corte di Cassazione, Sesta sezione penale, si è espressa sul tema dell’esercizio abusivo della professione di giornalista, su ricorso di un uomo condannato per il reato ex art. 348 cod.pen.
All’imputato è infatti contestato di avere esercitato abusivamente la professione di giornalista senza mai essere iscritto all’albo.
Dinanzi a tale contestazione, l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione per due motivi.
Esaminiamo dunque brevemente il caso e vediamo insieme come i giudici della Suprema Corte abbiano preso posizione sulla fattispecie.
La nozione di giornalista
Il ricorso per Cassazione è articolato in due motivi.
Con il primo, l’imputato deduce la violazione di legge con riguardo all’art. 1 della legge 3 febbraio 1969, n. 63, da interpretarsi alla luce dell’art. 35 della stessa legge, e vizio di motivazione.
In particolare, l’assunto della Corte d’appello sarebbe viziato perché, in mancanza di una esplicita definizione dell’attività giornalistica, detta definizione sarebbe desumibile da canoni di comune esperienza. L’attività espletata dall’imputato, che effettuava interviste, curava servizi di cronaca e commentava confronti politici, sarebbe dunque riconducibile all’attività giornalistica.
Pertanto, per l’imputato la Corte avrebbe errato nel ritenere che l’art. 1 della legge indicata – interpretato alla luce dell’art. 35 della stessa legge – fornisca una nozione restrittiva di attività giornalistica, nel senso che, al di fuori delle due figure professionali indicate dalla stessa legge (giornalista professionista e giornalista pubblicista), non vi sarebbero altre modalità con cui esercitare un’attività assimilabile a quella giornalistica, a meno di non incorrere in un esercizio abusivo della professione.
La nozione restrittiva e quella più allargata di giornalista
Sempre secondo la tesi dell’imputato, un’interpretazione restrittiva come quella di cui sopra sarebbe in contrasto con l’esistenza di figure professionali come l’articolista e il documentarista, che esercitando delle attività del tutto analoghe a quelle del giornalista, si scostano da questa per molteplici requisiti. Si pensi, a titolo di esempio, all’assenza di esclusività e di continuità, alla non occasionalità e/o retribuzione e appunto, alla mancata iscrizione all’Albo
Ancora, per l’imputato la legge n. 69 del 1963 che ha istituito l’Albo dei giornalisti avrebbe inteso regolamentare l’attività giornalistica allorché questa venga esercitata secondo determinate modalità ben strutturate. Tuttavia, non avrebbe nemmeno precluso l’esercizio di attività analoghe e per certi versi sovrapponibili, se questo esercizio viene effettuato in forma autonoma.
In altre parole, l’art. 1 della legge in questione ben ammetterebbe che l’attività giornalistica possa essere esercitata in modo non esclusivo, non continuativo, occasionale e senza retribuzione. Ne consegue che può essere ammesso all’attività giornalistica colui che non è giornalista professionista o giornalista pubblicista, poiché non iscritto all’albo.
Per l’imputato questa interpretazione più larga sarebbe altresì avallata dall’art. 35 della legge 69 del 1963. Il provvedimento di legge richiede infatti – ai fini della iscrizione all’albo – che vi sia documentazione comprovante il compimento di un’attività pubblicistica regolarmente retribuita da almeno due anni. Una norma che assume, di conseguenza, la possibilità che possa essere dunque svolta attività di giornalista pur senza essere iscritto all’albo.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce invece la violazione di legge nella parte in cui l’imputato – pur in presenza di una riforma parziale della sentenza di primo grado – è stato comunque condannato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile nel grado di appello.
Il giudizio della Corte: il ricorso è inammissibile
Il ricorso avanzato dall’imputato è però inammissibile.
Il primo motivo viene infatti respinto poiché generico. Ricordano i giudici della Suprema Corte che ai sensi dell’art. 1 della legge 1963 n. 69:
all’Ordine dei giornalisti appartengono i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell’albo. Sono professionisti coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista. Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi.
Ai sensi dell’art. 35 della stessa legge si riporta invece che:
per l’iscrizione all’elenco dei pubblicisti la domanda dev’essere corredata, oltre che dai documenti di cui ai numeri 1), 2) e 4) del primo comma dell’art. 31, anche dai giornali e periodici contenenti scritti a firma del richiedente, e da certificati dei direttori delle pubblicazioni, che comprovino l’attività pubblicistica regolarmente retribuita da almeno due anni.
Ora, per i giudici queste previsioni devono essere poste in connessione con l’art. 45 della stessa legge, più recentemente modificato con la legge 26 ottobre 2016, n. 198, secondo cui:
nessuno può’ assumere il titolo ne’ esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti dell’albo istituito presso l’Ordine regionale o interregionale competente. La violazione della disposizione del primo periodo è punita a norma degli articoli 348 e 498 del codice penale, ove il fatto non costituisca un reato più grave.
Ne deriva che, per la Cassazione, per esercitare la professione di giornalista è necessaria l’iscrizione nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti, e che l’inosservanza di questa previsione è punita ai sensi dell’art. 348 cod. pen.
L’orientamento giurisprudenziale
Con tale occasione la Cassazione ricorda anche che ancora prima della modifica apportata dalla legge 198 del 2016, la giurisprudenza aveva chiarito che – al di là della distinzione tra professionisti e pubblicisti – siccome la Costituzione garantisce a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero liberamente e con ogni mezzo di diffusione, tutti i cittadini possono svolgere episodicamente, l’attività di giornalista e dunque non commette alcun reato di abusivo esercizio della professione di giornalista, di cui agli artt. 348 cod. pen. e 45 legge 3 febbraio 1963, n. 69, colui che, senza essere iscritto all’albo dei giornalisti o in quello dei pubblicisti, collabori saltuariamente ad un periodico venendo retribuito volta per volta (Sez. 6, n. 428 del 02/04/1971, Gori, Rv. 118492).
Ma allora quando è integrato il reato di esercizio abusivo di una professione, ex art. 348 cod.pen.?
A spiegarlo è la stessa motivazione della sentenza in commento, laddove riporta come per integrare il reato di esercizio abusivo di una professione è necessario verificare
il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano tuttavia univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato (Sez. U, n. 11545 del 23 marzo 2012, Cani, Rv. 251819) .
insomma, di fianco alla riserva professionale collegata alla attribuzione in via esclusiva del singolo atto, esiste anche una riserva che è connessa allo svolgimento, con modalità tipiche della professione, di atti univocamente ricompresi nella sua competenza specifica.
Il caso in esame
Tornando al caso in esame, per i giudici della Cassazione i giudici di merito avrebbero correttamente spiegato che l’imputato partecipava a conferenze stampa, effettuava interviste, curava servizi di cronaca per una testata televisiva, commentava confronti politici e faceva dunque parte di una testata televisiva in modo organizzato, con un’attività che si è ritenuto essere svolta in modo continuativo.
Il Tribunale, dopo aver ricostruito i fatti e valutato le prove, ha dunque ben spiegato che l’attività svolta dall’imputato aveva natura informativa, e che lo stesso imputato soleva definirsi come un giornalista non iscritto all’albo.
Ecco dunque che il ricorso proposto dall’imputato non può trovare accoglimento, poiché generico e non confrontato con la motivazione della sentenza impugnata, e non in grado di evidenziare nessun vizio valutativo volto a minare l’accertamento fattuale. Non chiarisce inoltre perché l’attività svolta non sarebbe riconducibile a quelle per le quali è necessaria l’iscrizione all’albo. Né spiegherebbe sulla base di quali elementi i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere continuativa l’attività svolta dal ricorrente.
Insomma, l’intera ricostruzione alternativa del ricorrente è fondata su una ipotizzata violazione di legge che, tuttavia, sulla base dei fatti accertati, non sussiste.
È dichiarato inammissibile anche il secondo motivo di ricorso, essendosi limitata la Corte di appello a rideterminare la pena e, pertanto, a riformare la sentenza di primo grado in relazione ad un profilo esterno rispetto all’accertamento della responsabilità penale e del fatto illecito posto a fondamento della domanda risarcitoria.