Lite temeraria e pignoramento da titolo decaduto – indice:
- La controversia
- Le motivazioni in appello
- I motivi del ricorso
- L’esame del ricorso incidentale
- La caducazione del titolo esecutivo
- La decisione della Corte
- Chi è il giudice competente
Con la sentenza n. 25478/2021 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato il principio di diritto secondo cui il risarcimento dei danni da lite temeraria è ben richiedibile nel caso di esecuzione pignoratizia avviata sulla base del titolo decaduto.
Cerchiamo di ricostruire il caso giunto sulle scrivanie della Suprema Corte. E comprendere così in che modo si sia giunti alla formulazione del principio riportato a margine.
La controversia
La controversia trae origine da alcune cause in parte sovrapposte. La prima è riconducibile alla procedura di convalida dello sfratto. La seconda, all’opposizione all’esecuzione.
Il caso riguarda infatti l’intimazione di sfratto per morosità nei confronti dell’inquilino, convalidata dal Pretore in assenza dell’intimato. Il Pretore si dichiarò poi incompetente in favore del Tribunale.
Contro tale provvedimento di convalida si propose opposizione tardiva, giudicata ammissibile ma rigettata nel merito dal Tribunale. A sua volta la sentenza del Tribunale è impugnata in appello, dove si insiste per la fondatezza dell’opposizione tardiva alla convalida di sfratto.
Contemporaneamente, il proprietario dell’immobile locato da inizio all’esecuzione in relazione all’introduzione del secondo giudizio, l’opposizione all’esecuzione, anch’essa rigettata in primo grado dal Tribunale. Durante il giudizio venne però eseguito lo sfratto, e l’inquilino dovette pertanto rilasciare l’appartamento oggetto della controversia.
Le cose si fanno più complicate con il passare degli anni. La Corte d’appello ha infatti ribaltato l’esito del giudizio di opposizione alla convalida di sfratto. Accogliendo l’opposizione tardiva proposta dall’inquilino, ha dichiarato la nullità dell’ordinanza di convalida emessa in assenza dell’intimato. È stata dunque rigettata la domanda di risoluzione del contratto di locazione per morosità, per difetto di legittimazione attiva degli attori nell’esercizio dell’azione.
L’inquilino proposte anche appello nei confronti della sentenza pronunciata dal Tribunale nel giudizio di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., allegando come elemento sopravvenuto il venire meno del titolo esecutivo come conseguenza della sentenza della Corte d’appello nel giudizio di convalida di sfratto. La stessa Corte ha rigettato l’appello condannando l’inquilino alla rifusione delle spese del grado.
Le motivazioni in appello
La Corte ha osservato che l’eccezione di inammissibilità dell’appello, come proposta per asserita tardività, era da ritenersi infondata. Essendo il giudizio di opposizione all’esecuzione proposto seguendo il rito locatizio ex art. 447-bis c.p.c., infatti, il relativo giudizio si era svolto con il rito ordinario, come era confermato dalla pronuncia della sentenza ex art. 281-sexies del codice di rito. Dunque, l’appello era da considerarsi tempestivo.
Ciò rammentato, la Corte ha affermato che il titolo su cui i proprietari avevano proceduto all’esecuzione forzata era costituito da un’ordinanza di convalida di sfratto. La quale è stata eseguita mentre era pendente il giudizio di opposizione tardiva alla convalida.
Il giudizio si era concluso con il rigetto dell’opposizione in primo grado e con l’accoglimento della stessa in grado di appello.
La sentenza con cui la Corte aveva accolto l’opposizione tardiva alla convalida era però successiva a quella pronunciata in primo grado dal Tribunale nel giudizio di opposizione dell’esecuzione.
Quindi, per la Corte la sentenza impugnata non era censurabile. Perché, trattandosi di un mero fatto estintivo successivo, non poteva essere preso in considerazione. Doveva infatti riconoscersi rilevanza, nel giudizio di opposizione all’esecuzione, solamente dei fatti sopravvenuti che sono idonei a determinare l’inesistenza del titolo esecutivo.
Quindi, la Corte ha ritenuto che non potesse trovare accoglimento della domanda di risarcimento dei danni proposta dall’appellante ex art. 96 c.p.c., sia come domanda di condanna generica al risarcimento del danno per le quali deve ritenersi competente il giudice che accerta l’inesistenza del diritto contro il quale si è proceduto con l’esecuzione forzata.
Contro tale sentenza l’inquilino ha proposto ricorso con atto affidato a due motivi. I proprietari presentano un unico controricorso con un unico motivo incidentale.
I motivi del ricorso
Il primo motivo del ricorso riguarda la rilevanza della caducazione del titolo esecutivo giudiziale in corso di giudizio di opposizione all’esecuzione, ai fini della decisione da adottare e delle conseguenti ricadute in ordine alla liquidazione delle spese di lite.
Il secondo motivo ha ad oggetto l’individuazione del giudice competente ad emettere la pronuncia di risarcimento dei danni ex art. 96, secondo comma, c.p.c., in relazione all’esecuzione, intrapresa in difetto della normale prudenza, sulla base di un titolo giudiziario venuto meno nel corso del giudizio di opposizione all’esecuzione.
Esaminiamo i due ricorsi separatamente.
Il primo motivo
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., e degli artt. 339 e ss. e 345 c.p.c., oltre all’omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
In particolar modo, il ricorrente sostiene che il fatto sopravvenuto alla sentenza di primo grado (opposizione all’esecuzione) sia dedotto per la prima volta in appello qualora si tratti di un evento collegato con la situazione dedotta nel processo.
Il ricorrente afferma dunque che la Corte d’appello non avrebbe potuto limitarsi a constatare che la precedente sentenza non fosse stata pronunciata quando il Tribunale emise la sentenza di primo grado nel giudizio di opposizione all’esecuzione. E che quindi non avrebbe dovuto rigettare l’appello limitandosi a ritenere che la sentenza del Tribunale fosse corretta. Avrebbe invece dovuto prendere atto del sopravvenire della sentenza caducatoria del titolo esecutivo e decidere la causa nel merito tenendo conto di tale pronuncia.
Dunque, non sarebbe ravvisabile alcuna violazione del divieto di proporre nuove domande in appello, considerato che la prima sentenza della Corte d’appello costituisce un evento processuale che si è verificato dopo la chiusura del giudizio di primo grado e della proposizione dell’appello.
Ancora, il ricorrente afferma di aver dedotto, già nel ricorso di opposizione all’esecuzione, l’inesistenza di un titolo esecutivo legittimante l’esecuzione medesima, sebbene per motivi diversi:
- l’ordinanza di convalida era stata caducata dal sopravvenire della decisione di merito di primo grado
- la sentenza di merito di primo grado, anche se di rigetto all’opposizione tardiva alla convalida, non recava in sé alcuna condanna al rilascio e non poteva così legittimare l’esecuzione.
Il secondo motivo
Passiamo dunque al secondo motivo. Il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 96, primo e secondo comma, e dell’art. 615 c.p.c., oltre all’omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Nel dettaglio, il ricorrente osserva come la sentenza impugnata sarebbe stata errata anche nella parte in cui afferma che sia la domanda di risarcimento del danno da incauta esecuzione sia quella di condanna generica al risarcimento dei danni devono essere proposte davanti al giudice competente ad accertare l’inesistenza del diritto per il quale si è proceduto ad esecuzione forzata, competente per materia ex art. 96.
In particolare, il ricorrente afferma come per giurisprudenza consolidata, chi ha titolo a chiedere il risarcimento del danno da eseguita esecuzione forzata illegittima può agire ex art. 96 dinanzi al giudice dell’opposizione all’esecuzione, funzionalmente competente sia sull’an che sul quantum.
Così sostenendo, afferma ancora il ricorrente, il giudice d’appello avrebbe errato nel ritenere che la sua domanda non potesse essere proposta nel giudizio odierno, dinanzi al giudice dell’opposizione all’esecuzione.
Sostiene altresì che la domanda, oltre ad essere proponibile, sarebbe anche fondata. Coloro che hanno intrapreso l’esecuzione dell’immobile lo avrebbero infatti fatto senza essere né i proprietari del bene né ad altro titolo legittimati a disporne.
Il ricorso incidentale
Con l’unico motivo del ricorso incidentale, viene lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 618-bis, 447-bis, 434, 429 e 281-sexies c.p.c., ribadendo l’eccezione di inammissibilità dell’appello dell’inquilino, a suo tempo proposta.
I ricorrenti incidentali lamentano che il giudizio di opposizione all’esecuzione, avendo ad oggetto una controversia in materia di locazione, era stato correttamente iniziato in primo grado con ricorso ex art. 447-bis, seguendo il rito lavoristico, in seguito al quale il giudice aveva fissato l’udienza per la comparizione delle parti dinanzi a sé.
La sentenza era stata pronunciata ai sensi dell’art. 429 cit. e solo per errore materiale conteneva il riferimento all’art. 281-sexies del codice di rito.
Ora, la sentenza del Tribunale riporta la data del 2 febbraio 2010, il termine per proporre appello scadeva il 19 marzo 2011, cioè un anno e 45 giorni dopo. L’appello indotto erroneamente con atto di citazione ha notifica il 16 marzo 2011 ma iscrizione a ruolo il 25 marzo 2011, oltre il termine indicato. I ricorrenti incidentale dichiarano dunque il passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale.
In tal proposito il ricorrente principale dichiara invece che l’appello fu introdotto seguendo il rito ordinario, in conformità al principio dell’apparenza. Quello fu infatti il rito seguito del giudice di primo grado nel trattare la causa. Cosa che sarebbe stata dimostrata dal fatto che la sentenza del Tribunale già contiene un espresso riferimento ex art. 281-sexies del codice di rito.
L’esame del ricorso incidentale
Le Sezioni Unite iniziano ad esaminare i ricorsi partendo da quello incidentale, ritenuto fondato.
Sia la sentenza impegnata che il ricorso incidentale si sono soffermati sul problema del rito applicabile nei giudizi di opposizione all’esecuzione in materia locatizia, rilevando che l’appello sarebbe stato da considerare tempestivo o tardivo a seconda che si fosse ritenuta valida o meno la sua proposizione con atto di citazione, invece che con ricorso.
Per i giudici di Cassazione, però, la questione sarebbe del tutto irrilevante.
La giurisprudenza della Suprema Corte ritiene infatti che nei giudizi di opposizione all’esecuzione non si applica la sospensione feriale dei termini. Né, comunque, a diversa soluzione si giunge se in tale giudizio è stata proposta anche una domanda di risarcimento dei danni da responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., trattandosi di domanda accessoria.
Ne deriva che non hanno rilevanza le considerazioni avanzate dal ricorrente principale nella seconda memoria depositata, secondo cui la questione non sarebbe esaminabile in quanto nuova.
Il rispetto dei termini perentori fissati dalla legge, come noto, in relazione particolare alla tempestività delle impugnazioni, è una questione che il giudice è tenuto a verificare d’ufficio, considerate le finalità pubbliche per le quali detti termini sono posti.
Cumulo di domanda
È altresì inconferente, prosegue la pronuncia, il richiamo del ricorrente principale alla giurisprudenza sull’applicabilità della sospensione feriale in caso di cumulo di domande (opposizione all’esecuzione e contenuto diverso), considerato che tale situazione non ricorre nel caso odierno, non essendo appunto la domanda ex art. 96 una domanda autonoma.
Valutato che la sentenza del Tribunale è depositata il 2 febbraio 2010 e l’atto d’appello è notificato il 16 marzo 2011, anche in applicazione del termine lungo di un anno ex art. 327 c.p.c., nel testo ratione temporis applicabile, l’appello era comunque tardivo, a prescindere dalla sua proponibilità con citazione o con ricorso.
Ora, visto che il ricorso incidentale è stato accolto, il ricorso principale diventa inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse. La tardività dell’appello del ricorrente esaurisce in sé ogni esito decisorio, facendo diventare irrilevanti i motivi posti con il ricorso principale, che non potrebbero comunque condurre a una decisione diversa.
La caducazione del titolo esecutivo e le conseguenze nel giudizio di opposizione all’esecuzione
Nonostante l’irrilevanza dei motivi posti con il ricorso principale, le Sezioni Unite si sono comunque espresse sui temi per cui è stato sollecitato il proprio intervento.
Partiamo dalla prima questione, su cui i giudici della Suprema Corte elaborano una premessa ricca di spunti.
Per gli Ermellini, infatti, è regola pacifica – oramai condivisa da giurisprudenza e dottrina – che il processo esecutivo esiga l’esistenza di un titolo valido ed efficace non solo nella sua fase iniziale quanto anche per tutta la durata dello stesso processo.
In altre parole, non è sufficiente che il processo esecutivo si avvii sulla base di un titolo valido. Occorre invece che questi permanga per l’intera durata.
Questa regola generale è peraltro stata affermata dalle stesse Sezioni Unite con sentenza 7 gennaio 2014, n. 61, dove si è precisato che nel processo di esecuzione la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la continuativa sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento.
Il problema
Il problema della caducazione del titolo esecutivo che si è verificata nel corso del giudizio di opposizione all’esecuzione è avvertito con particolare evidenza laddove il titolo sia per sua stessa natura soggetto al venire meno a seguito di successive vicende maturatesi nell’ambito del processo di cognizione.
Sia sufficiente pensare, a titolo di esempio, al decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo, al provvedimento di convalida dello sfratto, e così via. In queste ipotesi può verificarsi che l’esecuzione sia promossa sulla base di un titolo esecutivo giudiziale che ha caducità intrinseca. Si tratta infatti di un titolo che è ancora soggetto al vaglio del giudice della cognizione nello stesso grado o in quelli successivi. Per cui può ben accadere che il creditore promuova l’esecuzione forzata, il debitore instauri il giudizio di opposizione all’esecuzione e nelle more di questo il titolo esecutivo venga meno nel processo di cognizione che in tanto va avanti in via autonoma.
L’improcedibilità del procedimento
Ora, il processo esecutivo può proseguire solo in presenza di un titolo valido ed efficace. Ne deriva che il giudice dell’opposizione all’esecuzione deve:
- dichiarare l’improcedibilità del procedimento esecutivo
- se da lui o dal giudice della cognizione, a seguito di opposizione,
- venga accertato che il titolo non era esecutivo.
Ovvero, se il provvedimento giurisdizionale fatto valere come titolo è annullato nel corso dei giudizi proposti per la sua impugnazione.
Le Sezioni Unite ricordano quindi come il giudice dell’opposizione sia tenuto a compiere d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, anche in sede di legittimità, la verifica sull’esistenza del titolo esecutivo rilevandone l’eventuale sopravvenuta carenza.
Cosa succede in caso di sopravvenuta caducazione del titolo
Ora, se è vero che la giurisprudenza ha sempre sollecitato la necessità di tenere conto di ogni cambiamento che possa avere effetti sul titolo esecutivo, non vi è mai stata sufficiente convergenza di vendute sulle conseguenze che la sopravvenuta caducazione del titolo possa determinare nel giudizio di opposizione all’esecuzione.
Un primo orientamento aveva ad esempio affermato che il successivo venire meno del titolo esecutivo determinerebbe l’ingiustizia dell’esecuzione promossa sulla base dello stesso. La conseguenza è che il giudizio di opposizione all’esecuzione deve concludersi con l’accoglimento della stessa.
Questo orientamento è stato successivamente abbandonato in favore di due possibili alternative che sono state poste all’esame delle Sezioni Unite dalla precedente ordinanza interlocutoria.
La prima alternativa è che se il titolo esecutivo viene caducato, il giudice dell’esecuzione deve dichiarare cessata la materia del contendere. L’opposizione è da ritenere quindi fondata, con il risultato che il debitore opponente non può essere condannato al pagamento delle relative spese, poiché altrimenti risulterebbe violato il principio secondo cui queste non possono essere a carico della parte virtualmente vittoriosa.
A tale orientamento si oppone il secondo, più recente. Pur riconoscendo che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo determina come esito decisorio la cessazione della materia del contendere, questo orientamento sottolinea come la caducazione non determini, di per sé, la fondatezza dell’opposizione all’esecuzione.
Per tale secondo approccio il giudizio di opposizione all’esecuzione si fonda sui motivi in base ai quali l’opposizione è proposta. Di conseguenza la sopravvenuta caducazione del titolo potrebbe essere intervenuta per motivazioni autonome e diverse rispetto alle quali fosse stata proposta originariamente l’opposizione.
La decisione della Corte
Ricordato quanto precede, si giunge così alla decisione delle Sezioni Unite. Le quali, nelle fasi conclusive della pronuncia, ribadiscono come:
- in caso di sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale,
- intervenuta a causa di un provvedimento pronunciato nel relativo giudizio di cognizione,
- il giudizio di opposizione all’esecuzione si deve concludere con una pronuncia di cessazione della materia del contenere,
- e non con l’accoglimento dell’opposizione.
Questo esito è quello che meglio si adatta al caso in esame. Dà infatti conto del fatto che l’opposizione all’esecuzione viene a chiudersi in forza di un evento esterno ad essa, maturato in diversa sede. E del quale il giudice dell’opposizione non può che prendere atto.
Ciò premesso, la Corte ha inteso comporre il contrasto di giurisprudenza privilegiando l’orientamento più recente, riconoscendo che entrambe le tesi sopra riassunte sono ben sostenute da argomentazioni giuridiche corrette. Tuttavia, deve in questa sede preferirsi quella secondo cui alla pronuncia di cessazione della materia del contenere deve affiancarsi la regolazione delle spese secondo i criteri della soccombenza virtuale.
I motivi di tale preferenza sono i seguenti.
Prima ragione
Il primo è che il giudizio di opposizione all’esecuzione è un giudizio vincolato ai motivi in essa proposti. Pertanto, il giudice può giudicare l’opposizione fondata in quanto ha accertato che i motivi in essa proposti erano giuridicamente condivisibili.
La Corte ricorda, in questo proposito, come le Sezioni Unite abbiano già avuto modo di affrontare come non è consentito, nelle opposizioni esecutive, proporre ragioni di contestazione ulteriori rispetto a quelle dell’originario ricorso introduttivo della fase davanti al giudice dell’esecuzione, anche in quei giudizi vigendo rigorosamente il principio della domanda e con la sola eccezione della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo.
Ancora, riportano le Sezioni Unite, si è altresì detto che nell’opposizione all’esecuzione fondata su di un titolo giudiziale non si può giammai addurre alcuna contestazione su fatti anteriori alla sua formazione o alla sua definitività, poiché quelle avrebbero dovuto dedursi esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento contro di quello.
Per i giudici, insomma, la caducazione del titolo esecutivo giudiziale avvenuta in sede di cognizione rappresenta un evento esterno. Rispetto al quale, si intende, i motivi dell’opposizione all’esecuzione possono coincidere o meno.
In altri termini, valutato che il titolo esecutivo può venire meno anche per ragioni diverse da quelle poste a base dell’opposizione all’esecuzione, giudicare fondata tale opposizione nel caso in esame equivarrebbe ad accoglierla per motivi diversi da quelli effettivamente proposti. Il che risulta disarmonico rispetto alla ricostruzione del sistema.
Seconda ragione
Il secondo motivo è quello di scoraggiare la proposizione di opposizioni strumentali. Considerato che l’esecuzione promossa sulla base di un titolo giudiziale non definitivo ha in sé una certa percentuale di rischio, porre le spese del giudizio di opposizione all’esecuzione sempre a carico del creditore opposto finirebbe con l’incoraggiare il debitore a proporre comunque l’opposizione al solo scopo di lucrare le relative spese in caso di successiva caducazione del titolo.
Questo aspetto non è trascurabile. Soprattutto, ammettono le Sezioni Unite, in un sistema processuale che si evolve nel senso di favorire l’esecuzione provvisoria dei provvedimenti giurisdizionali. La liquidazione delle spese del giudizio di opposizione secondo le regole della soccombenza virtuale, infatti, sembra rispondere maggiormente all’obiettivo di non fornire al debitore esecutato una sollecitazione alla proposizione di opposizioni all’esecuzione prive di fondamento.
Terza ragione
Infine, vi è una terza e ultima ragione. Che, a ben vedere, potrebbe però essere definita come quella più significativa. Liquidare le spese del giudizio di opposizione all’esecuzione con il criterio della soccombenza virtuale equivale ad assumere la regola decisoria più giusta, nel senso che essa consente al giudice dell’opposizione di verificare se e in quale misura l’opposizione sia o meno fondata.
Il principio di diritto
Le Sezioni Unite enunciano così il seguente principio di diritto:
In caso di esecuzione forzata intrapresa sulla base di un titolo giudiziale non definitivo, la sopravvenuta caducazione del titolo per effetto di una pronuncia del giudice della cognizione (nella specie: ordinanza di convalida di sfratto successivamente annullata in grado di appello) determina che il giudizio di opposizione all’esecuzione si debba concludere non con l’accoglimento dell’opposizione, bensì con una pronuncia di cessazione della materia del contendere; per cui il giudice di tale opposizione è tenuto a regolare le spese seguendo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare in relazione ai soli motivi originari di opposizione.
Chi è il giudice competente
La seconda vicenda su cui si è espressa la Corte, posta dall’ordinanza interlocutoria, è l’individuazione del giudice competente a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento dei danni ex art. 96 secondo comma, c.p.c.
Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.
Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.
In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
Ricordiamo come l’orientamento della Cassazione, da tempo prevalente, sia quello di ricondurre la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. ad una particolare forma di illecito la cui regolazione assorbe quella ex art. 2043 c.c. Diviene altresì pacifica l’affermazione secondo cui la condanna ex art. 96 c.p.c. presuppone la soccombenza totale della parte, non essendo sufficiente la soccombenza parziale.
Ora, con riguardo alla specifica individuazione del giudice competente a pronunciarsi sulla domanda di responsabilità processuale aggravata, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo stabilito come il giudice competente sia necessariamente quello di merito. Se infatti l’illecito è di natura processuale ed è connesso allo svolgimento di un’attività giurisdizionale, il corollario più logico è che solo il giudice di quella causa sia chiamato ad esaminare il fondamento della domanda risarcitoria.
Chi si pronuncia sulla domanda risarcitoria
In sintesi, si ritiene che nessuno meglio del giudice della causa nella quale il comportamento scorretto si sarebbe tenuto può esprimere un giudizio. Si è altresì richiamata la necessità di evitare il contrasto di giudicati che ben potrebbe verificarsi se la causa di merito e la domanda risarcitoria in questione fossero esaminate da due giudice diversi.
Altre pronunce hanno inoltre ricordato che l’obbligatoria coincidenza rispetta il principio di concentrazione necessaria dei due giudizi di risarcimento del danno ex art. 96 e di quello di merito della causa principale, richiamando la regola della connessione necessaria.
In aggiunta a ciò, un altro motivo per cui la domanda di risarcimento in questione non può essere proposta in una sede diversa da quella del giudizio di merito è individuata altresì nel fatto che sia il primo che il secondo comma dell’art. 96 c.p.c. fanno riferimento come presupposto necessario all’istanza dell’altra parte.
La norma in questione non pone dunque una regola di competenza, ma disciplina un fenomeno che si esaurisce all’interno di un processo già pendente, sulla base del quale il potere di domandare la condanna si esercita solamente in quella determinata sede processuale e non in un’altra.
Le difficoltà interpretative
Chiarito ciò, la Corte avverte che è impossibile fare del principio sopra richiamato una regola assoluta.
Viene dunque riconosciuto che la domanda di risarcimento di cui all’art. 96 c.p.c. può essere proposta anche in un giudizio autonomo se lo svolgersi della vicenda processuale ha reso impossibile la concentrazione.
Generalmente, si suole affermare che la domanda di risarcimento può essere eccezionalmente proposta in una sede autonoma se il procedimento, per qualsiasi motivo, non perviene alla fase conclusiva della decisione. Ovvero, quando i danni si manifestano in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente dinanzi al giudice di merito.
Quindi, le Sezioni Unite indicano finalmente da chi deve essere esaminata la domanda di risarcimento in questione in presenza di un’esecuzione forzata, promossa sulla base ad un titolo giudiziale successivamente caducato.
Ebbene, la giurisprudenza della Corte ha già trattato negli anni questo tema, sancendo che la domanda di risarcimento deve essere devoluta in via esclusiva al giudice cui spetta conoscere il merito della causa.
È dunque affermato che quel giudice può essere il giudice del processo nell’ambito del quale il titolo esecutivo è formato, quando trattasi di titolo esecutivo giudiziale. E, quindi, il giudice dell’appello o quello dell’opposizione al decreto ingiuntivo.
Tuttavia, può anche darsi che in conseguenza dell’esecuzione promossa vi sia un giudice chiamato a pronunciarsi sull’esistenza del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata perché sia stata proposta un’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.. In questo caso è davanti a lui che deve proporsi l’istanza di cui all’art. 96 c.p.c., perché è quello il giudice cui è demandato l’accertamento dell’ingiustizia dell’esecuzione forzata.
Le soluzioni prospettate
Traendo le somme, sono tre le soluzioni richiamabili:
- la domanda di risarcimento deve essere proposta solo nel giudizio avente ad oggetto la formazione del titolo esecutivo. Dunque, nel caso in esame, il giudizio di convalida di sfratto
- la domanda di risarcimento deve essere proposta solamente nel giudizio di opposizione all’esecuzione
- infine, la domanda di risarcimento può essere proposta anche in un giudizio autonomo.
Di queste tre soluzioni, le Sezioni Unite escludono tuttavia l’ipotesi n. 3 per impraticabilità. Per brevità, non si riportano le motivazioni che hanno indotto i giudici a formulare tale esclusione.
Rimane invece di maggiore interesse comprendere le sorti della domanda di risarcimento dei danni per avere iniziato o compiuto l’esecuzione forzata senza la normale prudenza. Dovrà essere proposta, in caso di successiva caducazione del titolo esecutivo giudiziale, nel giudizio che ha per oggetto la formazione del titolo o nel giudizio di opposizione all’esecuzione?
In tal senso, si rileva prima di tutto che il problema non si pone nel caso di esecuzione forzata compiuta in base a un titolo esecutivo stragiudiziale, ipotesi nella quale ogni contestazione sul titolo può avere luogo solamente in sede di opposizione all’esecuzione.
Fatta salva questa eccezione, il giudice competente ad esaminare la domanda di risarcimento è da identificare in prima ipotesi nel giudice della formazione del titolo esecutivo.
Domanda non più proponibile al giudice della cognizione
Peraltro, può verificarsi anche che la domanda risarcitoria – per le ragioni già espresse – non sia più proponibile dinanzi al giudice della cognizione. Considerato che quel giudizio si è già concluso, perché magari sussistono preclusioni di carattere processuale o perché il grado del giudizio nel quale la causa si trova di per sé esclude che si svolgano accertamenti di merito che possono richiedere attività istruttoria.
In queste ipotesi, la domanda risarcitoria dovrà essere proposta al giudice dell’opposizione all’esecuzione. Il quale sarà chiamato necessariamente a dare corso alla fase di merito del relativo giudizio. Senza che sia possibile ricorrere al meccanismo di estinzione anticipata della procedura ex art. 624 terzo comma, c.p.c. Una conseguenza che si giustifica in considerazione del fatto che colui che ha presentato la domanda domanda risarcitoria è il debitore esecutato. Il quale non può imputare ad altri il rischio del possibile allungamento dei tempi processuali.
In termini ancora più chiari, le Sezioni Unite rammentano come le due sedi processuali sopra indicate non siano da intendersi alternative, bensì subordinate. Nel senso che il debitore esecutato dovrà attenersi all’ordine stabilito. Dovrà dunque proporre la domanda davanti al giudice dell’opposizione all’esecuzione solamente se essa non sia più proponibile dinanzi al giudice della cognizione.
È pur vero, si legge ancora nella sentenza, che le due ipotesi sopra delineate non esauriscono l’intera casistica delle possibilità. Potrebbe infatti anche darsi che la domanda risarcitoria non possa essere proposta né dinanzi al giudice della cognizione né dinanzi a quello dell’opposizione all’esecuzione.
Impossibilità di fatto e di diritto
Può infatti sussistere tanto l’impossibilità di fatto tanto un’impossibilità di diritto nel procedere in una simile direzione.
La prima, per intenderci, si ha quando la vittima – al momento del compimento della temeraria iniziativa processuale, non aveva patito alcun danno. E non poteva ragionevolmente prevedere di subirne in seguito.
La seconda, invece, si verifica nel momento in cui per le ragioni già espresse vi siano preclusioni di carattere processuale alla proposizione della relativa domanda.
Quanto al giudizio di opposizione all’esecuzione, l’ostacolo potrebbe essere costituito dal fatto che nel momento in cui il danno si è manifestato, il giudice potrebbe avere già chiuso il giudizio. Prendendo così atto della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale intervenuta nel giudizio di cognizione.
In questi casi il danneggiato non potrà avere altra strada che quella di proporre la domanda risarcitoria in un giudizio autonomo. Tuttavia, questa possibilità non può essere il frutto di una libera scelta della parte, bensì dell’impossibilità di percorrere le strade in precedenza delineate.
In definitiva, si tratta di una residua eventualità che non può essere sempre esclusa. E che costituisce uno strumento di tutela del danneggiato e di coerenza interna del sistema.
Il principio di diritto
Si formula così il seguente principio di diritto:
L’istanza con la quale si chieda il risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 96, secondo comma, cod.proc.civ., per aver intrapreso o compiuto l’esecuzione forzata senza la normale prudenza, in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale non definitivo, successivamente caducato, deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio in cui si è formato o deve divenire definitivo il titolo esecutivo, ove quel giudizio sia ancora pendente e non vi siano preclusioni di natura processuale.
Ricorrendo, invece, quest’ultima ipotesi, la domanda si pone al giudice dell’opposizione dell’esecuzione. E, solamente quando sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto alla proposizione della domanda anche in sede di opposizione all’esecuzione, potrà esserne consentita la proposizione in un giudizio autonomo.