La concorrenza sleale – indice:
- Cos’è
- I presupposti
- Ambito di applicazione
- Concorrenza sleale indiretta
- Le associazioni di categoria
- Le fattispecie confusorie
- L’imitazione servile
- La denigrazione
- L’appropriazione di pregi
- Altre forme di concorrenza sleale
- Le sanzioni
La concorrenza sleale è un insieme di fattispecie di concorrenza “disonesta” tipizzate dal legislatore nel codice civile e in altre leggi speciali. Tali fattispecie si verificano nel libero mercato in cui si esprime l’identità dell’imprenditore dai tempi della rivoluzione industriale. A loro tempo, tuttavia, queste fattispecie non erano tipizzate dalla legge e l’imprenditore dunque non riceveva alcun tipo di tutela se non quella dell’illecito aquiliano oggi prevista all’articolo 2043 del codice civile. Ciò che si rendeva necessario tutelare allo scopo di rendere la concorrenza onesta erano i segni distintivi dell’imprenditore. Questi infatti sono gli elementi che lo rendono identificabile nel mercato da parte di un pubblico e che devono dunque essere a suo uso esclusivo. In un atto di concorrenza sleale tale uso esclusivo viene tolto all’imprenditore da parte di un terzo ingannando di conseguenza il consumatore e distorcendo dunque il meccanismo premiale di un sano regime di concorrenza.
La prima tutela legislativa della concorrenza si ebbe a livello internazionale con la Convenzione d’Unione tenutasi a Parigi nel 1883. Da una norma contenuta in tale convenzione (Art. 10-bis) il legislatore italiano nel 1942 ha introdotto nel nostro codice civile l’articolo 2958 che da allora a tutt’oggi disciplina “gli atti di concorrenza sleale“.
Cos’è la concorrenza sleale
In un libero mercato, ovvero in un mercato in cui non ci sono limiti di accesso, si contendono il primato gli imprenditori. La forza di quest’ultimi all’interno di un mercato sta nei diritti acquisiti su segni distintivi ed altri diritti di proprietà industriale, sui quali l’imprenditore esercita un uso esclusivo. I segni distintivi infatti gli permettono di essere identificati dal consumatore ed essere da questi scelti. Si crea pertanto tra più imprenditori un regime di concorrenza in cui vengono premiati i migliori e scartati i mediocri.
Tale regime di concorrenza è genuino fino a che l’uso esclusivo dei propri segni distintivi o diritti di proprietà industriale non viene sottratto ad un imprenditore da parte di un altro. Si verificano in tal caso atti di concorrenza sleale tipizzati in maniera diversa dal legislatore a seconda del comportamento posto in essere dall’imprenditore concorrente. Tali atti sono caratterizzati principalmente dall’essere, come si vedrà, confusori e mendaci.
In particolare, le fattispecie individuate dal legislatore nel codice civile, all’articolo 2598, sono 3:
- quelle confusorie, tra cui si individua, nello specifico, l’imitazione servile, di cui al primo comma;
- la denigrazione e l’appropriazione di pregi di cui al secondo comma;
- tutti gli altri atti di concorrenza sleale non ricompresi nel primo e secondo comma della norma e che possono essere distinti in due gruppi. L’uno comprendente atti volti ad alterare la situazione del mercato senza colpire uno specifico imprenditore. L’altro invece comprendenti atti rivolti a colpire un concorrente determinato.
Tutti gli atti di concorrenza sleale sono soggetti a sanzione. La più incisiva, come si vedrà, è l’inibitoria, altre sono previste dal codice civile e dal codice della proprietà industriale.
I presupposti della concorrenza sleale
Dalla lettura dell’articolo 2598 c.c. si desume che il primo presupposto della concorrenza sleale è l’esistenza di un rapporto di concorrenza fra due o più soggetti. La norma infatti dice “compie atti di concorrenza chiunque…”. Bisogna pertanto definire che cosa si intenda per concorrenza. In parole semplici si ha un rapporto di concorrenza quando due imprenditori offrono sullo stesso mercato prodotti o servizi, anche di qualità inferiore l’uno rispetto all’altro, che soddisfano gli stessi bisogni o bisogni simili e dunque si rivolgono allo stesso pubblico (clientela). Si crea pertanto con la concorrenza sleale una reciproca attività di sviamento della clientela.
La concorrenza dunque rileva sotto un duplice profilo:
- quello merceologico, ovvero che tipo di prodotti e servizi offrono gli imprenditori alla medesima clientela;
- quello territoriale, ovvero in che misura si estende il mercato dove avviene l’incontro fra domanda e offerta.
L’altro presupposto ai fini della concorrenza sleale è la qualifica di imprenditore ricoperta dai soggetti che si trovano in concorrenza.
I beni e i servizi offerti
Si ha certamente un rapporto di concorrenza quando due imprenditori offrono prodotti o servizi identici in un mercato che si sviluppa anche in parte nello stesso territorio. Quando manca tuttavia l’identità tra i prodotti e i servizi bisogna spostarsi sul piano dei bisogni della clientela. A titolo esemplificativo un produttore di bibite gasate soddisfa un bisogno simile a quello di un produttore di sciroppi e pertanto si può affermare la sussistenza di un rapporto di concorrenza. Chi invece produce abiti non soddisferà gli stessi bisogni del pubblico di chi produce canottiere da intimo. In questo secondo caso, dunque, non si può affermare l’esistenza di un rapporto di concorrenza, per lo meno non attuale.
Adottando un’interpretazione estensiva della disciplina sulla concorrenza sleale, tuttavia, si può ricomprendere all’interno della tutela anche un rapporto di concorrenza potenziale se ci si accerta del suo concreto verificarsi in relazione alle circostanze. Ben può essere infatti, con riferimento all’ultimo esempio, che chi produce canottiere da intimo inizi, in un futuro, a produrre vestiti e viceversa.
L’estensione del mercato sul territorio
Un attività d’impresa opera in un mercato presente in un certo territorio. Più sarà grande tuttavia l’attività più è probabile che operi su un mercato territorialmente più vasto.
È infatti per le attività d’impresa di grande dimensione che si pone territorialmente il problema della concorrenza. In primo luogo perché è probabile che più l’impresa sarà grande più distribuisca i propri prodotti e servizi su tutto il territorio nazionale. In secondo luogo perché, anche così non fosse, si è enormemente sviluppato il sistema della pubblicità che permette alle imprese di farsi conoscere su territori sempre più vasti e dunque di mobilitare la clientela. Quando viene sfruttata la pubblicità infatti il mercato di un’impresa si identifica con la notorietà della stessa sul territorio.
Come per il profilo merceologico, anche l’estensione del mercato sul territorio con riferimento agli di concorrenza sleale che sia potenziale e non attuale rientra nei confini della tutela di cui all’articolo 2598 c.c.
Ambito di applicazione della disciplina: la qualifica di imprenditore
Stando al dettato normativo di cui all’articolo 2598 c.c. la norma sembra riservare la propria applicazione a chi, anche di fatto, esercita un’attività di impresa. Dove per di fatto si intende anche un’attività svolta senza licenza amministrativa e dunque in maniera irregolare. La qualifica di imprenditore richiesta infatti non è tuttavia quella strettamente individuata dall’articolo 2082 c.c. È sufficiente infatti che l’attività economica organizzata sia diretta alla produzione e allo scambio di beni e servizi tralasciando il requisito della professionalità.
Come per gli altri presupposti della concorrenza sleale, il requisito dell’imprenditorialità non deve essere necessariamente attuale per rientrare nel campo di applicazione della norma. Può considerarsi tutelato dalle fattispecie di cui all’articolo 2598 c.c. anche chi si sta adoperando per intraprendere un’attività organizzata in forma d’impresa.
Ci si domanda invece se la tutela valga anche durante la procedura di liquidazione di una società che mantenga la qualifica di imprenditore. Qui la risposta positiva o negativa dipende dalle circostanze. Sarà negativa se la società non è più in attività da tempo e non c’è la minima possibilità di una ripresa. Al contrario sarà positiva se durante la procedura si prospetta una ripresa dell’attività. Ad esempio perché:
- l’azienda viene ceduta ad un terzo che prosegue l’attività;
- viene revocato lo stato di liquidazione;
- non si dissolve del tutto l’assetto organizzativo aziendale.
Sulla stessa linea d’onda si ragiona per l’imprenditore fallito. Se il nucleo aziendale non si è dissolto oppure se viene deciso l’esercizio provvisorio dell’attività l’impresa è tutelata dalle fattispecie di concorrenza sleale di cui all’articolo 2598 c.c.
Concorrenza sleale tra liberi professionisti
L’attività economica organizzata in forma di impresa può essere esercitata non solo dall’imprenditore strettamente inteso ma, in un caso specifico, anche dal libero professionista. Questo infatti, se inserito in una struttura di rilevanti dimensioni, può assumere la qualifica di imprenditore ma a delle condizioni che sono state precisate dai giudici della Cassazione. La più recente sentenza in merito è la n. 2520 del 2016. Solo in questo caso la tutela della concorrenza sleale è estesa al libero professionista.
In questa occasione i giudici hanno individuato l’unico caso in cui il professionista intellettuale può esercitare attività in forma d’impresa. Si riportano le seguenti testuali parole della decisione: “e poi è pur vero che anche i professionisti intellettuali (in generale), possono teoricamente assumere la qualità di imprenditore commerciale quando esercitano la professione nell’ambito di un’attività organizzata in forma di impresa, ciò vale solo in quanto essi svolgano una distinta ed assorbente attività che si contraddistingue da quella professionale proprio per il diverso ruolo che assume il sostrato organizzativo – il quale cessa di essere meramente strumentale- e per il diverso apporto del professionista, non più circoscritto alle prestazioni d’opera intellettuale, ma involgente una prevalente opera di organizzazione di fattori produttivi che si affiancano all’attività tecnica ai fini della produzione del servizio”.
La concorrenza sleale indiretta: gli atti di compiuti da soggetti terzi nell’interesse dell’imprenditore
Si tratta di un’ipotesi di concorrenza sleale indiretta e riconosciuta dall’articolo 2598 c.c al terzo comma quella costituita da atti posti in essere non personalmente dall’imprenditore ma da soggetti di cui si avvale per l’esercizio dell’attività di impresa. Si pensi ad esempio al personale dipendente, agli organi sociali se l’organizzazione è strutturata in forma societaria o ad altri ausiliari e collaboratori.
Secondo la giurisprudenza più consolidata tali atti devono essere posti in essere non necessariamente per conto dell’imprenditore (cioè su suo incarico specifico) ma almeno nel suo interesse. E pertanto non è detto sia l’imprenditore medesimo a realizzarli bensì un soggetto terzo che, consapevolmente, agisce nel suo interesse, in danno di un altro imprenditore.
A chi è imputabile la responsabilità degli atti di concorrenza sleale in tale caso? in primo luogo all’imprenditore stesso e in secondo luogo anche al terzo. Bisogna tuttavia distinguere in base al ruolo ricoperto da quest’ultimo:
- se si tratta di un dipendente dell’imprenditore la responsabilità versa tutta in capo a questi. È fatto salvo il caso in cui il dipendente svolga delle mansioni in cui ha potere di iniziativa nello stesso ambito in cui sono stati posti in essere gli atti di concorrenza sleale. Sarà allora anch’egli eventualmente responsabile;
- se invece si tratta dell’amministratore di una società che pone in essere atti di concorrenza sleale nello svolgimento del suo ufficio, sarà responsabile solo la società salvo che tali atti non siano direttamente ed esclusivamente a lui riconducibili;
- per tutti gli altri soggetti la responsabilità è in solido con l’imprenditore.
Il ruolo delle associazioni di categoria degli imprenditori
L’articolo 2601 del codice civile attribuisce ad associazioni professionali e ad enti che rappresentano le categorie di imprese il potere di agire contro gli atti di concorrenza sleale posti in essere nei confronti di una categoria e che ne pregiudicano l’identità. La norma risale ai tempi delle corporazioni e pertanto si riferiva ad associazioni professionali ed enti oggi non più esistenti. Rimanendo tuttavia la norma in vigore tali associazioni ed enti sono oggi riconosciuti in qualsiasi associazione anche locale rappresentate una categoria di imprenditori.
In dottrina e in giurisprudenza si discute della natura di tale legittimazione attiva ovvero se sia in forma di sostituzione processuale oppure iure proprio (per far valere un diritto proprio). Nel primo caso l’associazione agirebbe, in un’unica soluzione e dunque agevolando le funzioni processuali, sostituendosi a tutti gli appartenenti a quella determinata categoria in ragione di un pregiudizio da tutte subito. Nel secondo caso invece l’associazione agisce per un pregiudizio dalla stessa subito e pertanto potrà chiedere soltanto il risarcimento del danno personalmente subito e non quello eventualmente subito dagli associati.
Tali enti e associazioni possono rendersi inoltre responsabili di atti di concorrenza sleale a loro volta. Saranno pertanto legittimati passivi e responsabili in solido con l’imprenditore come anzidetto al paragrafo precedente.
Le fattispecie confusorie di concorrenza sleale
Il numero uno del primo comma dell’articolo 2598 individua 3 fattispecie di concorrenza sleale confusoria:
- usare nomi o segni distintivi di un altro imprenditore creando confusione nel pubblico;
- l’imitazione servile dei prodotti di un altro imprenditore;
- altre modalità di creare confusione con l’attività di un altro imprenditore. Tale fattispecie è poco impiegata se non per delle ipotesi singolari di utilizzo dei segni distintivi altrui.
Queste tre fattispecie sono tutte accomunate dall’idoneità a produrre confusione, dove per essa si intende la pratica di un imprenditore di orientare ingannevolmente il pubblico verso un prodotto o un servizio spacciandolo per proprio quando in realtà proviene da altro imprenditore. Si parla in questo caso di confusione sull’origine, ovvero sulla provenienza dell’attività.
Ma come si svolge concretamente questa pratica? Si realizza riproducendo più o meno pedissequamente i segni distintivi di un altro imprenditore. E tale modalità è valida ad integrare non solo la prima fattispecie in cui è espressamente prevista ma anche le altre due. A titolo esemplificativo la riproduzione del segno altrui può avvenire imitandolo graficamente (disegni e scrittura), foneticamente (riproducendone i suoni), semanticamente (dandone lo stesso significato), oppure adottando dei prefissi o dei suffissi di parole usate nell’altrui segno distintivo.
Precisazioni
Si ricorda qui brevemente che i segni distintivi sono gli elementi che distinguono un imprenditore da un altro grazie alla loro capacità distintiva ed altri requisiti che possiedono. Su di questi l’imprenditore esercita un diritto esclusivo di utilizzo e pertanto, la tutela di cui all’articolo 2598, primo comma, si rivolge proprio a questo diritto affinché non venga illecitamente sottratto all’imprenditore da parte di altri.
Due precisazioni vanno fatte in merito all’ambito di applicazione della tutela. La prima riguarda il concreto verificarsi delle pratiche confusorie: questa non è necessaria ai fini dell’applicabilità della tutela essendo l’illecito qualificato come illecito di pericolo e dunque derivante anche da sola confondibilità (potenziale confusione). La seconda riguarda la tutela di quei segni distintivi per i quali sono individuate altre forme di tutela in leggi speciali. Si tratta ad esempio della ditta, dell’insegna e del marchio. La giurisprudenza prevalente ritiene che le due discipline di tutela concorrano l’una con l’altra e talvolta addirittura si accumulino.
L’imitazione servile
Si ha imitazione servile, secondo quanto previsto dal n.2 primo comma, dell’art. 2598 c.c., quando si riproduce pedissequamente il prodotto di un imprenditore concorrente. La disposizione, essendo di ampia portata, ha portato nel tempo la dottrina ad interrogarsi su alcune questione che successivamente la giurisprudenza ha chiarito.
Anzitutto, l’imitazione è servile quando idonea a creare confusione in quanto la disposizione è inserita fra le fattispecie confusorie. Si è stabilito che produce confusione quando riproduce parti esterne di un prodotto e non quelle interne o comunque facenti parti della struttura del prodotto ma non immediatamente visibili.
Se il prodotto pedissequamente imitato inoltre viene condito con il marchio dell’imitatore può diventare dubbia l’illiceità dell’imitazione quando il segno distintivo esclude la confusione nel pubblico differenziando sufficientemente il prodotto.
Ulteriore ipotesi confermata di imitazione servile è quella pratica di riprodurre i prodotti e i segni distintivi di grandi marche. In questo caso l’idoneità a produrre confusione viene per così dire “acquistata” consapevolmente con il prodotto imitato e riversata in capo a terzi che possono confondere il prodotto imitato con l’originale.
Il corpo della tutela contro l’imitazione servile riguarda principalmente dunque la forma del prodotto. In conseguenza a ciò, si segnala che viene in rilievo, insieme alla disciplina della concorrenza sleale, quella del brevetto quando l’innovazione tecnologica riguarda proprio la forma del prodotto.
La denigrazione
Tipizzata al n.2 dell’articolo 2598 c.c., la denigrazione è un atto di concorrenza sleale compiuto da chi “diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito“. L’atto consiste sostanzialmente nell’esprimere giudizi negativi o divulgare dati sui prodotti e sull’attività di un imprenditore concorrente arrecandogli un danno concorrenziale. Tale danno può consistere ad esempio nella perdita di clientela, nella perdita di fiducia da parte del proprio personale dipendente ovvero nella perdita di fornitori.
La diffusione non deve necessariamente essere protratta nel tempo bensì è sufficiente riguardi un singolo episodio in grado di far perdere anche un solo affare all’imprenditore concorrente. L’attività di diffondere inoltre è per lo più intesa con riferimento ad una pluralità di soggetti piuttosto che ad una sola persona. In quest’ultimo caso si esclude che vi sia un atto di concorrenza sleale quando la diffusione dei dati o l’espressione di un giudizio negativo derivi dalla richiesta di informazioni e dunque quale reazione ad uno stimolo e non su iniziativa personale dell’imprenditore.
L’illecito si ha comunque, come già accennato, ove le notizie e i dati diffusi siano idonei a provocare un danno concorrenziale. Per arrecare un danno di questo tipo dunque bisogna dare un’interpretazione estensiva della norma ricomprendendo anche dati o giudizi che riguardano lo stato dell’attività, sia dal punto di vista economico/finanziario che organizzativo nonché la persona dell’imprenditore nella sua dimensione lavorativa. Le notizie e gli apprezzamenti devono inoltre essere tendenzialmente falsi per costituire l’illecito di cui si parla. La giurisprudenza pende per escludere l’illecito quando si tratta di notizie vere ed obbiettive (difficilmente poi nella prassi si riesce a dimostrare l’obbiettività).
Le fattispecie della denigrazione
Nella denigrazione infine possono individuarsi due fattispecie: quella della comparazione e quella della magnificazione del proprio prodotto.
Nella prima i giudizi e le notizie diffuse comparano i prodotti o l’attività propri del denigratore a quelli di un concorrente. Talvolta la comparazione avviene anche mediante pubblicità che, tuttavia, deve rispettare delle condizioni di liceità per non essere considerata fattispecie denigratoria di cui all’articolo 2598, n. 2.
La seconda fattispecie si verifica quando si utilizzano delle affermazione superlative, anche tramite la pubblicità, sui propri prodotti o sulla propria attività, senza alcun cenno a quelli altrui, presupponendo l’eccellenza dei propri rispetto a quella dei concorrenti. Su questa forma di denigrazione tuttavia c’è una visione abbastanza liberale da parte della giurisprudenza. Per cui spesso una pubblicità di questo tipo viene considerata lecita.
L’appropriazione di pregi
È la seconda fattispecie prevista dal n. 2 dell’articolo 2598 c.c. secondo cui compie un atto di concorrenza sleale chi “si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente“.
Anche in questo caso la norma va interpretata ricordando che ci si trova nell’ambito della concorrenza ed è al danneggiamento di questa che tali atti illeciti sono diretti. Muovendo da questa direzione, pertanto, la legge intende per pregi le qualità positive dei prodotti e di un’impresa concorrente che ad essa recano un vantaggio concorrenziale in un certo mercato. Di conseguenza l’azione di appropriazione consiste nel fatto che un imprenditore attribuisce alla propria attività ed ai propri prodotti le qualità positive, che determinano una preferenza sul mercato, dei prodotti e dell’attività di un imprenditore concorrente.
Come avviene tale appropriazione? comunicando falsamente ad un pubblico, anche tramite strumenti pubblicitari, tali qualità positive “sottratte” al concorrente come proprie arrecandogli un danno. Questo si traduce in termini di perdita della clientela che ingannata andrà a preferire l’autore dell’illecito.
Non si ha invece appropriazione di pregi nel comunicare delle qualità positive di prodotti ed attività posseduti anche da un’impresa concorrente in maniera veritiera.
Le altre forme della concorrenza sleale
Il n. 3 dell’articolo 2598 c.c. conclude la norma recando indicazioni su tutti gli atti di concorrenza sleale diversi da quelli enunciati ai numeri 1 e 2. Tali atti sono tutti quelli contrari ai principi della correttezza professionale e che sono idonei a danneggiare l’altrui azienda.
Stante la molteplicità di orientamenti che ha assunto la giurisprudenza nel corso del tempo, quello prevalente ritiene con riguardo ai principi di correttezza professionale che spetti al giudice dare un giudizio di correttezza e dunque riempire la norma di contenuto. Il giudizio di correttezza dev’essere formulato sulla base di un sentire morale ed etico di una categoria professionale in relazione ad un dato momento storico.
Il secondo requisito previsto dalla norma è il danno concorrenziale. Questo, come si è già visto nella fattispecie precedenti, subordina l’esistenza della concorrenza sleale. Atti di concorrenza bonaria infatti sono leciti ma non danneggiano l’attività altrui. Il danno pertanto è l’elemento discriminante tra concorrenza sleale e lecita. Si segnala inoltre che il danno dev’essere arrecato all’azienda di un imprenditore concorrente. Stando alla lettera della norma si dovrebbe fare riferimento alla definizione di azienda di cui all’articolo 2555 c.c. In realtà viene data un’interpretazione più ampia di azienda ricomprendendo qualsiasi aspetto dell’attività d’impresa svolta dall’imprenditore. Il danno inoltre è sufficiente sia potenziale e non concretamente verificatosi.
Con tale norma, in sostanza, sono state individuati e raggruppati in raccolte normative diverse dal codice civile una serie di comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale diversi dagli altri previsti all’articolo 2598 c.c.
Quali rimedi e sanzioni sono previste per gli atti di concorrenza sleale
Introducendo la questione parlando di competenza processuale in materia di concorrenza sleale si segnala che la giurisdizione spetta alle Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale per quanto riguarda le ipotesi di concorrenza sleale di cui al n. 1 dell’articolo 2598 c.c., mentre spettano al giudice ordinario le ipotesi previste ai numeri 2 e 3. Con riguardo a quest’ultime è possibile ricorrere ai provvedimenti di natura cautelare di cui all’articolo 700 c.p.c. quali l’inibitoria provvisoria o il sequestro dei beni che sono stati creati e/o messi in commercio in modo illecito.
Con riguardo alle sanzioni l’articolo 2599 c.c. recita: “La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti”. Si ottengono dunque con la sentenza di accertamento del avvenuto compimento degli atti di concorrenza sleale (indipendentemente dall’elemento psicologico e dal danno causato):
- l’inibitoria ovvero il divieto assoluto di continuare a compiere gli atti dichiarati illeciti dal giudice;
- la disposizione dei provvedimenti necessari a limitare gli effetti di tali atti.
Ai sensi dell’articolo 2600 c.c. è previsto inoltre il risarcimento del danno se l’atto è compiuto in presenza di dolo o colpa e dunque c’è un danno effettivo ai sensi dell’articolo 2043 c.c. nonché l’eventuale ordine di pubblicare la sentenza.