L’assoluzione – indice:
- Premessa
- Cos’è
- Le formule assolutorie
- L’impugnazione in appello
- Altri casi di assoluzione
- Gli effetti
Una volta conclusosi il dibattimento o l’eventuale rito alternativo, nel processo penale si passa alla fase in cui il giudice delibera una decisione. Il codice di procedura penale disciplina tale fase sia dal punto di vista procedimentale che strutturale e lo fa ponendo dei limiti alle modalità di formazione e manifestazione del libero convincimento del giudice. Il procedimento di deliberazione inizia con il raccoglimento dell’organo giudicante in camera di consiglio e termina con il deposito della sentenza nella cancelleria del tribunale. Tale sentenza può essere di proscioglimento o di condanna. Nel primo caso può assumere due diverse formule: la sentenza di non doversi procedere o la sentenza di assoluzione. Quest’ultima, oggetto dell’approfondimento, è regolata dall’articolo 530 del codice penale che ne prevede formule diverse a seconda della causa che ha portato il giudice a prosciogliere l’imputato.
L’articolo 530, primo comma, del codice penale infatti afferma che:
“Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la causa nel dispositivo”.
Premessa: proscioglimento e assoluzione
Prima di iniziare l’approfondimento sulla sentenza di assoluzione è opportuno spendere qualche parole sul proscioglimento essendo l’assoluzione, come già accennato nell’introduzione, una formula ad esso connessa. In ogni caso si tratta di due concetti distinti.
Il proscioglimento si configura come il contenuto della decisione che assume il giudice quando ritiene l’imputato non colpevole. Il proscioglimento dipende da due diverse ipotesi. Può essere nel merito e far discendere una sentenza di assoluzione. Oppure può dipendere dall’improcedibilità o dall’estinzione del reato e portare ad una sentenza di non doversi procedere.
Cos’è l’assoluzione
Il giudice prescrive l’assoluzione quando, dopo essere entrato nel merito delle questioni processuali ovvero dopo essersi accertato della sussistenza o meno del reato, ritiene che l’imputato non possa essere condannato. Nel valutare la sussistenza o meno del reato il giudice verificherà se, dalle prove risultanti dal dibattimento, il fatto storico corrisponde a quello previsto e sanzionato dalla norma penale incriminatrice.
Le ragioni per cui il giudice può ritenere che l’imputato non possa essere condannato sono diverse. L’articolo 530 c.p. prevede le “formule assolutorie” e le elenca tassativamente. Il giudice, quando emette sentenza di assoluzione, deve indicare nel dispositivo della sentenza quale formula assolutoria adotta.
Le formule assolutorie
Le formule assolutorie che il giudice può adottare nella sentenza di assoluzione sono le seguenti:
- il fatto non sussiste;
- l’imputato non ha commesso il fatto;
- il fatto non costituisce reato;
- non è previsto dalla legge come reato;
- è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione.
Tali formule sono state appositamente elencate dal legislatore secondo un ordine logico: dalla più favorevole per l’imputato a quella meno favorevole. Se più di una concorre nella sentenza il giudice dovrà scegliere di applicare quella più liberatoria.
L’assoluzione perché il fatto non sussiste
La prima formula di assoluzione dev’essere adottata dal giudice quando manca l’elemento oggettivo del reato. Il giudice infatti svolge un giudizio di comparazione tra quanto risulta dal processo mediante le prove e i requisiti oggettivi richiesti dalla norma incriminatrice per la sussistenza del reato. Valuta ovvero l’evento, la condotta e il nesso di causalità che, se non risultano o non corrispondono a quelli della norma incriminatrice, significa che il fatto non sussiste.
Questa è la formula più favorevole per l’imputato che si utilizza, ad esempio, quando un soggetto è accusato di omicidio ma dall’istruzione dibattimentale risulta che la morte della vittima è derivata da altri motivi.
L’imputato non ha commesso il fatto
Si utilizza la formula dell'”imputato non ha commesso il fatto” quando il reato sussiste sia sotto il profilo dell’elemento oggettivo che soggettivo ma chi l’ha commesso non coincide con l’imputato.
Riprendendo l’esempio del paragrafo precedente, il giudice assolve l’imputato per non aver commesso il fatto se l’omicidio si è verificato ma è stato commesso da persona diversa.
Il fatto non costituisce reato
L’assoluzione dell’imputato avviene con la formula se “il fatto non costituisce reato” nelle seguenti ipotesi:
- sussistono tutti i presupposti oggettivi ma manca l’elemento soggettivo (dolo, colpa, preterintenzione);
- manca uno degli elementi oggettivi che integrano la condotta ai sensi della norma incriminatrice come ad esempio la qualifica ricoperta dall’agente richiesta dalla norma affinché si integri reato;
- quando il reato sussiste ma ci sono delle cause di giustificazione. Si tratta cioè di ipotesi in cui l’imputato ha agito commettendo reato ma per una ragione che giustifica la sua azione ed elimina l’antigiuridicità rendendo il fatto lecito ai sensi del diritto penale, civile e amministrativo. A titolo esemplificativo si cita l’azione per legittima difesa.
L’assoluzione perché il fatto non è previsto dalle legge come reato
Quando il reato è stato commesso ed il fatto è illecito sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo ma non è previsto in nessuna norma incriminatrice il giudice assolve l’imputato perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Tale circostanza si verifica di solito quando il legislatore è intervenuto abrogando una norma della legge penale che prevedeva un reato, quando una norma viene dichiarata costituzionalmente illegittima o una fattispecie viene depenalizzata ad opera di leggi speciali oppure per errore del pubblico ministero.
Il reato è stato commesso da una persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione
Si tratta dell’ipotesi in cui il giudice accerta l’esistenza del reato e dunque la commissione del fatto illecito nonché la sua addebitabilità all’imputato. Quest’ultimo tuttavia presenta delle caratteristiche che non lo rendono punibile o imputabile.
L’imputato non è imputabile quando è incapace di intendere e di volere perché:
- non ha raggiunto i 14 anni di età;
- è infermo di mente.
Non è punibile invece quando per il reato commesso è prevista una causa di non punibilità oppure quando sopraggiunge un evento che esclude la condizione obbiettiva di punibilità di cui all’art. 44 c.p. Tra le cause di non punibilità si citano, ad esempio, quelle che riguardano la posizione personale dell’agente o i suoi rapporti con la vittima quando commette il reato oppure un comportamento dallo stesso tenuto successivamente alla commissione del reato.
La terza ipotesi che rientra in tale formula assolutoria è il regime dell’immunità penale di cui godono alcuni soggetti.
L’impugnazione della sentenza di assoluzione in appello
La sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste non è appellabile dall’imputato ma è appellabile dal pubblico ministero ai sensi dell’articolo 593, secondo comma del codice di procedura penale.
Come per la precedente formula, l’imputato non può appellare la sentenza che lo assolve per non aver commesso il fatto. Può proporre tuttavia appello il pubblico ministero come stabilisce l’art. 593 c.p.p.
Ai sensi dell’articolo 576, primo comma, del codice di procedura penale, la parte civile “può proporre impugnazione … ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio”.
Gli altri in casi in cui il giudice prescrive l’assoluzione
I commi 2 e 3 dell’art. 530 c.p.p. contemplano le ipotesi in cui:
- c’è incertezza sulla sussistenza del fatto perché la prova “manca, è insufficiente o contraddittoria” (comma 2);
- è dubbia la presenza di una causa di giustificazione o di una causa di non punibilità dell’imputato.
La mancanza e l’insufficienza di prove sono messe sullo stesso piano dal momento che sarà il giudice a distinguerle a seconda della valutazione della gravità della lacuna probatoria. La contraddittorietà invece contempla l’esistenza di prove a favore e a sfavore dell’imputato di pari valore tal che l’organo giudicante non riesce a formulare un giudizio in un senso o nell’altro. In entrambi questi casi tuttavia il giudice prescrive l’assoluzione in quanto prevale la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, della Costituzione se non si riesce a dimostrare il contrario in giudizio. Dalle lettura combinata degli articoli 530, secondo e terzo comma, e 533, primo comma, c.p.p. si deduce che l’imputato può essere condannato solo quando non vi è alcun “ragionevole dubbio” sulla sua colpevolezza, cosa che invece resta incerta in caso di insufficienza o contraddittorietà delle prove.
Allo stesso modo l’imputato ha diritto ad essere assolto qualora sia in grado di far sorgere il dubbio sull’esistenza di una causa di giustificazione o di non punibilità anche se non certa.
In tutti questi casi comunque il giudice deve indicare la formula assolutoria ex comma 1 dell’art. 530 c.p.p.
Effetti dell’assoluzione: risarcimento del danno e spese giudiziali
Con la sentenza che prescrive l’assoluzione, l’imputato è liberato di ogni peso di natura cautelare. Ai sensi dell’art. 532 c.p.p. infatti “Con la sentenza di proscioglimento, il giudice ordina la liberazione dell’imputato in stato di custodia cautelare e dichiara la cessazione delle altre misure cautelari personali eventualmente disposte”.
Se è fatta richiesta al giudice, con la sentenza che assolve l’imputato per cause diverse dal difetto di imputabilità, ai sensi del secondo comma dell’art. 542 c.p.p., “il giudice, se ne è fatta richiesta, condanna la parte civile alla rifusione delle spese processuali sostenute dall’imputato e dal responsabile civile per effetto dell’azione civile, sempre che non ricorrano giustificati motivi per la compensazione totale o parziale. Se vi è colpa grave, può inoltre condannarla al risarcimento dei danni causati all’imputato o al responsabile civile”.
Se l’assoluzione viene prescritta per un reato procedibile a querela nelle forme di assoluzione piena, ovvero le prime due previste dall’art. 530 c.p.p., il giudice condanna il querelante a:
- pagare le spese del procedimento anticipate dallo stato;
- rimborsare le spese processuali all’imputato;
- risarcire il danno all’imputato e al responsabile civile.
L’articolo 530, comma 4, infine stabilisce che la sentenza di assoluzione comporta l’applicazione delle misure di sicurezza nei casi previsti dalla legge.