Lecito non pagare l’avvocato inadempiente – indice:
- Inadempimento professionale
- Conversione del sequestro
- Diligenza professionale avvocato
- Nesso causale del danno
- Perdita del cliente
L’inadempimento professionale dell’avvocato, tale da aver determinato una perdita in capo al proprio assistito, rende inutile l’attività difensiva svolta e – in sintesi – determina la non necessarietà di corrispondere un compenso.
Ad affermarlo è la recente sentenza n. 24519/2018 della Corte di Cassazione, con la quale – appunto – se l’inadempimento è totale e la prestazione è stata improduttiva di effetti in favore del cliente, quest’ultimo è legittimato a non pagare l’onorario del professionista
Inadempimento professionale dell’avvocato
La vicenda giudiziaria trae origine da un avvocato chiamato in causa dal proprio cliente, che lamentava una perdita di diritto a causa del suo inadempimento professionale.
Nel dettaglio, la vicenda riguardava un contratto preliminare di compravendita: il legale aveva ottenuto la condanna dei promittenti venditori inadempienti al pagamento di circa 46 mila euro a favore del suo assistito ed il sequestro conservativo dell’immobile.
Tuttavia, l’avvocato non aveva provveduto, nel termine perentorio di 60 giorni, a depositare la sentenza d’appello, e a chiederne l’annotazione a margine della trascrizione del sequestro conservativo.
Di qui, l’inefficacia del sequestro, con i convenuti che avevano successivamente potuto alineare il bene.
Il cliente del legale aveva prontamente agito per l’accertamento della responsabilità del professionista, che però negava ogni addebito e agiva in via riconvenzionale, domandando la corresponsione del compenso per l’attività svolta, pari a circa 5 mila euro.
Giunta in appello, la vicenda verteva in favore del cliente, con il legale condannato alla refusione dei 46 mila euro al suo cliente, e al pagamento delle spese processuali.
L’avvocato però decideva di ricorrere in Cassazione, anche per veder accertato il proprio diritto al compenso professionale. Nella sua tesi difensiva, il legale sostiene che il giudice non abbia correttamente valutato il rifiuto del cliente ad esperire altre azioni a tutela del suo credito, in particolare l’azione revocatoria. In altri termini, per l’avvocato il cliente sarebbe corresponsabile di quanto accaduto nella causazione del danno.
Conversione del sequestro in pignoramento
I giudici della Suprema Corte considerano come infondata l’argomentazione del ricorrente sull’esperimento dell’azione revocatoria, ricordando come la trascrizione dell’alienazione dell’immobile a terzi è avvenuta posteriormente alla trascrizione del sequestro conservativo, e che l’unico strumento di tutela per la parte sequestrataria consisteva nella conversione del sequestro in pignoramento, non appena ottenuta la sentenza di condanna. Dunque, non vi era alcun pratico interesse ad esperire l’azione revocatoria.
Ad avviso della Corte di Cassazione, sarebbe invece stato sufficiente agire per poter ottenere la conversione del sequestro in pignoramento. In questo modo l’alienazione a terzi sarebbe stata inopponibile al creditore.
In ragione di ciò, le difese del legale sulla possibilità di esperire altre azioni, sono ritenute infondate dagli Ermellini, così come quelle volte a sostenere la corresponsabilità del cliente.
La diligenza professionale dell’avvocato
Stando alla giurisprudenza prevalente, il legale deve usare la diligenza professionale media esigibile (art. 1176 c. 2 c.c.), che non potrà che essere ponderata sulla base della natura dell’attività esercitata.
La violazione del dovere di diligenza comporta un inadempimento contrattuale: il professionista risponde infatti anche per la colpa lieve, tranne nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà.
Ne deriva che, per i giudici, l’inadempimento professionale comporta l’applicazione dell’art. 1460 c.c. e la perdita del diritto al compenso.
L’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. può essere opposta dal cliente all’avvocato che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale, “purché la negligenza sia stata tale da incidere sugli interessi del cliente, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente” (Cass. 7309/2017).
In sintesi, il cliente può legittimamente rifiutare di corrispondere il compenso all’avvocato, se l’avvocato ha commesso omissioni della sua attività difensiva tali da impedire il conseguimento di un esito della lite altrimenti ottenibile, sia pur sulla base di criteri necessariamente probabilistici.
Il nesso causale nel danno al cliente
Per poter arrivare al risultato della perdita del diritto al compenso, è però necessario anche verificare se nel concreto l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del legale o meno.
Se tale requisito è verificabile si potrà procedere con l’accertamento dell’effettiva sussistenza del danno, e acclarando se qualora l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, l’assistito avrebbe effettivamente conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni.
Ovviamente, come abbiamo già avuto modo di precisare, il giudizio non potrà che essere affidato a criteri probabilistici.
In conclusione, il cliente dovrà provare non solamente di aver subito un danno, ma anche che il danno sia stato determinato da una attività negligente o insufficiente del professionista.
Inadempimento assoluto e perdita del diritto al compenso
Nel caso in esame, l’inadempimento del legale viene considerato totale, e la prestazione effettuata è risultata improduttiva di effetti in favore del cliente. Proprio per tale ragione all’avvocato non è dovuto alcun compenso.
L’inadempimento del professionista viene considerato come totale solo perché l’errore da questi commesso è definitivo, ovvero rappresenti una fonte ultima di danno.