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Home » Penale » Internet » Stalking, circostanza aggravata se la persecuzione avviene con WhatsApp

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Stalking, circostanza aggravata se la persecuzione avviene con WhatsApp

Avv. Beatrice Bellato consulenzalegaleitalia.it Stalking, circostanza aggravata se la persecuzione avviene con WhatsApp
whatsapp
Avv. Beatrice Bellato

Lo stalking con WhatsApp – indice:

  • WhatsApp è mezzo informatico
  • WhatsApp come mezzo di prova
  • Prova documentale

Un comportamento persecutorio come quello di stalking è aggravato se agito con un mezzo informatico come WhatsApp, la più nota app di messaggistica istantanea. Ad affermarlo è la recente sentenza Cass. n. 3989/2019, ritenendo infondato il ricorso dell’imputato nella parte in cui viene contestata l’applicazione di una pena che è diversa rispetto a quella concordato.

WhatsApp è mezzo informatico

Ai nostri fini di commento, il motivo di lamentela più interessante tra i tre presentati in analisi di Cassazione è il terzo, legato ai presunti vizi motivazionali e violazione di legge, per aver il tribunale inteso qualificare la messaggistica telefonica tra soli due utenti come un mezzo informatico.

In altri termini, nel caso di specie, non vi è modifica della fattispecie oggetto di contestazione, ma la sola esplicitazione rispetto al fatto descritto nel campo di impugnazione, della necessità di considerare la circostanza aggravante dell’uso del mezzo informatico, quale ritenuto l’impiego del sistema di messaggistica istantanea WhatsApp, come subvalente, in modo da conservare il risultato sanzionatorio concordato dalle parti.

WhatsApp come mezzo di prova

I nostri lettori più attenti ben rammenteranno che questa non è certo la prima volta che ci occupiamo della rilevanza di WhatsApp in sede processuale.

In questo nostro approfondimento, ad esempio, avevamo condiviso che, secondo sentenza Cass. n. 49016/2017, anche le chat di WhatsApp possono costituire una prova in un processo penale, a patto che sia acquisito il supporto telematico o figurativo in modo tale che si possa verificare l’affidabilità in sede processuale.

Per i giudici della Suprema Corte, la registrazione delle conversazioni che avvengono sulla celebre app di messaggistica istantanea possono infatti costituire memorizzazione di un fatto storico, dalla quale è possibile disporre a fini probatori.

Per gli Ermellini, infatti, la chat su WhatsApp è una prova documentale che ha una piena legittimazione dall’art. 234 c.p.p., il quale contempla in esso la possibilità di acquisire in giudizio anche documenti che rappresentano fatti, persone o cose, mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo.

Se quanto sopra abbiamo precisato è elemento di notorietà, dovrebbe esserlo anche il fatto che la trascrizione ha una sola funzione di riproduzione del contenuto della principale prova documentale. La conseguenza è che per poter utilizzare la trascrizione in sede processuale sarà necessario acquisire il supporto che la contiene.

Prova documentale

Soffermiamoci dunque in minore brevità sull’art. 234 c.p.p., rubricato “Prova documentale”, i cui tre commi ci dicono che:

È consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo.

Quando l’originale di un documento del quale occorre far uso è per qualsiasi causa distrutto, smarrito o sottratto e non è possibile recuperarlo, può esserne acquisita copia.

È vietata l’acquisizione di documenti che contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo o sulla moralità in generale delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti.

Si tratta, a ben vedere, di una norma di ampio respiro, che il legislatore ha probabilmente introdotto con la finalità di sgombrare il campo da dubbi e/o limitazioni.

È anche vero, però, che come più volte rilevato da autorevole dottrina, il codice di procedura penale ha consapevolmente omesso di fornire una definizione di documento, limitandosi invece a prevedere la possibilità di acquisire ogni supporto materiale che rappresenti fatti, persone o cose.

Ne deriva che gli elementi che costituiscono il documento sono almeno quattro:

  • il fatto rappresentato, che è l’oggetto della prova;
  • la rappresentazione, che è la creazione di un equivalente al fatto rappresentato;
  • l’incorporamento, che è la procedura con cui la rappresentazione viene fissata sulla base materiale;
  • la base materiale, che è il mezzo con cui si conserva e si riproduce la rappresentazione.

Così rammentato, la decisione di lasciare aperto il “catalogo” dei supporti che sono idonei a riprodurre il documento ha certamente agevolato l’estensione della disciplina ex art. 234 cpp ai documenti informatici.

In tale ambito, se non vi sono dubbi sulla possibilità di ricondurre il documento informatico alla categoria di documenti di cui all’art. 234, più incerta sembra essere la relazione tra il documento informatico e i documenti tradizionali.

Documento informatico e tradizionale

Se da un lato appare è ipotizzabile che il documento informatico possa essere ritenuto una species di rappresentazione nuova e ulteriore rispetto a quelle codificate, dall’altro lato sembra essere ipotizzabile che una fotografia o un video possono indistintamente assumere forma analogica o digitale, se contenuti all’interno di un file.

Traendo le conclusioni, ciò che distingue un documento informatico da uno tradizionale non sembra essere l’attitudine rappresentativa, bensì la metodologia di incorporamento: all’interno dei file (che, sulla base degli elementi di cui sopra, è la base materiale) vi è una serie ulteriore di dati che, pur non attenendo alla rappresentazione del fatto, sono rilevanti nel momento in cui la prova deve essere acquisita, ammessa e valutata. Si pensi – tra i vari fattori – alla data di ultima modifica o all’autore del documento: informazioni che, se modificate, potrebbero incidere sulla genuinità della rappresentazione.

Avv. Filippo Martini – diritto penale

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