Il reato di diffamazione nel dare ai vicini degli animali – indice:
Con i vicini di casa è opportuno cercare di mantenere buoni rapporti. O, per lo meno, evitare di attribuire loro alcuni termini non certo bonari proprio davanti al giudice. Dare degli “animali” è, ad esempio, punibile per diffamazione stando a quanto ricordato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 35540/2016. In tale occasione una donna è stata sanzionata penalmente con una multa e condannata al risarcimento dei danni per essersi rivolta durante l’udienza all’indirizzo di una coppia di vicini dichiarando che non sono persone ma – appunto – animali.
La condanna del giudice di pace per diffamazione
La sentenza in esame conferma quanto rinvenuto nei gradi di giudizio precedenti, ricordando che già la sentenza del 2 dicembre 2015 ad opera del Tribunale di Messina confermava la pronuncia dei locale Giudice di Pace con la quale la donna era stata condannata alla pena di 400 euro di multa, oltre al risarcimento danni in favore della parte civile, per il reato di cui all’art. 595 c.p., “perché in presenza di più persone, nel corso dell’udienza pubblica tenutasi dinanzi al Giudice di Pace di Messina, nel rendere spontanee dichiarazioni ex art. 494 c.p.p., nella qualità di imputata, offendeva la reputazione di N.A. e M. N. (quest’ultimo coimputato nello stesso procedimento) affermando: questi “non sono persone, ma animali””.
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Il ricorso contro la sentenza in Cassazione
Contro tale sentenza la donna proponeva ricorso per Cassazione, lamentando la violazione, l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 42 e 595 c.p. In particolar modo, la donna lamentava il fatto che la condotta ascritta non integrasse l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 595 c.p. Ciò per mancanza, sia dell’elemento soggettivo del reato, che di quello oggettivo. La donna infatti non aveva inteso offendere, né diffamare, i propri vicini di casa, e aveva utilizzato la frase solamente per “far meglio comprendere al Giudice di Pace i fatti per i quali era maturata l’imputazione di cui al procedimento”. Il difensore dell’imputata precisa pertanto che in quelle che erano delle mere dichiarazioni spontanee rese dalla donna sia emerso lo sfogo l’esasperazione “subita sin dal 1999, epoca in cui i coniugi M. trasferiti nell’appartamento sovrastante, iniziavano ad assumere atteggiamenti persecutori nei confronti dell’imputata e del marito”.
La tesi difensiva della donna ricordava altresì che il Giudice dell’appello, sulla base di quanto sopra e con una motivazione ritenuta insufficiente, avrebbe “disatteso il consolidato principio, secondo cui non integrano la condotta di diffamazione le espressioni verbali che si risolvano in dichiarazioni di insofferenza rispetto all’azione del soggetto nei cui confronti sono dirette e sono prive di contenuto offensivo nei riguardi dell’altrui onore o decoro, persino se formulate con terminologia scomposta ed ineducata”. Nella fattispecie, uno dei due vicini di casa (l’uomo della coppia) si era reso a sua volta reo (condannato) di un comportamento lesivo del marito della donna, andando a colpirlo al viso ed al costato.
La diffamazione come interpretata dalla Corte di Cassazione
Le valutazioni dei giudici della Suprema Corte, tuttavia, ritengono inammissibile il ricorso, definendolo generico e infondato. In particolare, con il primo dei motivi di ricorso sui quali ci siano soffermati più a lungo, e con il quale la donna contestava la ricorrenza degli elementi oggettivo e soggettivo dei reato di diffamazione contestatole, laddove le sentenze di merito, senza incorrere in vizi, con congrua motivazione hanno dato atto della sussistenza di entrambi tali elementi del reato, gli ermellini ritengono che in realtà il termine “animali” utilizzato per rivolgervi ai vicini di casa “si presenta offensivo dell’onore e decoro dei destinatari, con esso volendosi attribuire alle persone offese mancanza di senso civico e di educazione, caratteristica questa, secondo la comune sensibilità, lesiva dell’ altrui reputazione”.
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Se infatti – dichiarano i giudici – “il bene giuridico tutelato dalla norma ex art. 595 c.p., è l’onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (alias reputazione) di ciascun cittadino e l’evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente ad incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino, l’espressione oggetto di contestazione è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa, concretizzando un pregiudizio anche la divulgazione di qualità negative idonee ad intaccarne l’opinione tra il pubblico dei consociati”.
Le cause giustificative del reato di diffamazione
Per quanto concerne poi gli altri punti contestati, i giudici della Cassazione ricordano quanto evidenziato dal giudice d’appello. Nella sentenza d’appello infatti il giudice affermava che nella fattispecie non si ravvisasse alcun fatto ingiusto altrui che avesse potuto determinare lo stato d’ira dell’imputata. Per tale motivo si è potuto ritenere non punibile la sua condotta.
In modo più dettagliato, la impugnata dalla donna ha evidenziato come il fatto ingiusto non possa ritenersi integrato dall’avere le parti offese querelato l’imputata in relazione ai fatti per cui era processo, “avendo le stesse esercitato un legittimo diritto, né si configura alla luce della pronuncia di assoluzione, in grado di appello, della medesima imputata (omissis), assoluzione peraltro che si fonda – come emerge dalla lettura della motivazione della sentenza, versata in atti -sulla mancanza di riscontri al dichiarato delle persone offese, ritenuti, nella specie, necessari in ragione dei rapporti conflittuali tra le parti, né vi è prova, che l’imputata fosse stata calunniata e che ciò avesse determinato la sua reazione offensiva nei confronti delle parti civili”.