Dare dell’omosessuale e reato di diffamazione – indice:
- Il caso
- Il ricorso in Cassazione
- La decisione
- Tipicità del reato
- Attribuzione della qualità di omosessuale
Secondo quanto afferma una recente pronuncia della Corte di Cassazione, dare dell’omosessuale a qualcuno non rappresenta più un reato, poiché tale appellativo non è lesivo della reputazione, nemmeno se rivolto a un eterosessuale.
In altri termini, per la sentenza n. 50659 dello scorso 29 novembre 2016, sarebbe da escludere che la sola attribuzione della qualità di omosessuale abbia di per sé un carattere lesivo della reputazione di un soggetto passivo, tenendo conto dell’evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività. Questa parola, affermano i giudici della Suprema Corte, non ha pertanto carattere denigratorio, ed è oggi nell’uso corrente e attiene alle preferenze sessuali dell’individuo, assumendo un carattere neutro anche nel caso in cui sia rivolta a una persona eterosessuale.
Il caso: reato di diffamazione
Per poter comprendere come si sia giunti a tale pronuncia, giova compiere un piccolo passo indietro e ricostruire la vicenda. L’imputato, nella fattispecie, è un anziano di origine argentina che avrebbe definito un’altra persona come “omosessuale”. Ritenutasi offesa, la parte aveva querelato per diffamazione l’imputato, condannato in via penale, e spinto così a far ricorso direttamente in Cassazione sostenendo che la parola “omosessuale” ha perso oggi giorno qualsiasi carattere lesivo.
Il ricorso in Cassazione
Nella sua difesa, l’imputato sostiene che il Giudice di Pace non avrebbe “valutato il contesto in cui è stato utilizzato il termine imputato, eccependo altresì il mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 598 c.p.”. Ha inoltre contestato la stessa natura offensiva del termine “omosessuale”, affermando che nel linguaggio comune – come abbiamo già ricordato – la locuzione avrebbe perso qualsiasi carattere lesivo, e evidenziando come il suo intrinseco significato non possa costituire un insulto.
La decisione della Corte
Sulla base di quanto sopra, la Corte di Cassazione ha ricordato come “oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l’onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale”.
Per la Corte, quella che è identificato come “onore”, prevede che quel che deve essere tutelato mediante incriminazione sia l’opinione sociale del valore della persona offesa dal reato. “Come noto, soprattutto in dottrina si è affermata anche una diversa elaborazione del concetto di ‘onore’, da intendersi come attributo originario dell’individuo, costituendo esso un valore intrinseco della persona umana in forza della dignità che gli è propria e che non può essere negata dalla comunità sociale.
Concezione questa ispirata al principio personalistico che pervade la carta costituzionale e che, superando, la dicotomia tra onore in senso soggettivo ed oggettivo propria della concezione fattuale, tende a ricondurre ad unità l’oggettività giuridica dei delitti previsti dagli artt. 594 e 595 c.p. 3.2” – proseguono poi gli Ermellini.
A tal punto, i giudici ricordano come le due concezioni sopra descritte possano trovare un punto di contatto nella distinzione della lesione della reputazione da quella dell’identità personale, che “corrisponde al diritto dell’individuo alla rappresentazione della propria personalità agli altri senza alterazioni e travisamenti. Interesse che può essere violato anche attraverso rappresentazioni offensive dell’onore, ma che, al di fuori di tale ultimo caso, non ha autonoma rilevanza penale, integrando la sua lesione esclusivamente un illecito civile”.
La tipicità del reato di diffamazione
Introdotto ciò, la Corte ricorda poi come la tipicità della condotta di diffamazione è rappresentata dall’offesa della reputazione, e che si rende pertanto necessario – nel caso di comunicazione scritta o orale – che i termini dispiegati o il concetto veicolato mediante essi, siano “oggettivamente” idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo.
In questo senso e nel caso di specie, aggiunge la Corte, “è innanzi tutto da escludere che il termine ‘omosessuale’ utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto.
A differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente, il termine in questione assume infatti un carattere di per sè neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell’uso comune”.
L’attribuzione della qualità di omosessuale
Per i giudici, sarebbe altresì da altresì “che la mera attribuzione della suddetta qualità – attinente alle preferenze sessuali dell’individuo – abbia di per sé un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell’evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività, quale che sia la concezione dell’interesse tutelato che si ritenga di accogliere”.
Infine, conclude la pronuncia, si rammenta come il termine utilizzato non possa ritenersi effettivamente offensivo nemmeno se viene valutato nel contesto in cui è stato concretamente dispiegato, evocativo, secondo la sentenza impugnata e la persona offesa, dell’intento denigratorio dell’imputato.
“Infatti l’inconferenza, rispetto all’oggetto della denuncia presentata (…), della precisazione circa il presunto orientamento sessuale del querelante non è di per sé in grado di rendere tipica l’offesa, anche nel caso, come quello di specie, in cui il soggetto passivo rivendica la propria eterosessualità.
Circostanza che semmai rivela come la condotta dell’imputato sia al più riconducibile ad una lesione dell’identità personale della persona offesa, che, per le ragioni già illustrate, non è autonomamente rilevante ai fini della configurabilità del reato contestato” – conclude la Corte.
Per questi motivi, la sentenza impugnata viene annullata senza rinvio, poiché il fatto non sussiste.