Le critiche al dipendente e la diffamazione – indice:
Il capo può criticare il proprio dipendente utilizzando toni anche pesantemente aspri, ma a patto di non travalicare il limite delle critiche professionali, entrando nel “recinto” della censura diretta alla persona quale individuo in sé considerato. Insomma, il datore di lavoro o il superiore gerarchico può ben contestare il comportamento professionale del dipendente / collaboratore, ma solo ed esclusivamente all’atteggiamento assunto in ambito lavorativo, con prevalente riferimento alle proprie mansioni.
Ma è allora possibile trovare un limite oltre il quale al datore di lavoro può essere contestato il reato di diffamazione?
Rispetto della dignità umana
Per poter diramare qualche dubbio legato al “limite” da non travalicare, ci si può ben riferire alla recente sentenza n. 52578/2017 da parte della Corte di Cassazione, sez. V Penale, e alla ricostruzione di una vicenda che potrebbe essere comune a tanti nostri lettori.
In particolar modo, la fattispecie su cui si sono espressi gli Ermellini trae origine dalla contestazione mossa ad una donna, in merito alla sua presunta offesa della reputazione della parte ricorrente, poiché aveva inviato una lettera al Ministero per i Beni Culturali ed alla Biblioteca Nazionale di Bari – comune datore di lavoro delle parti – in cui aveva scritto che il proprio subordinato gerarchico aveva “ritardato, eluso, omesso e ostacolato ogni sua direttiva intesa al rilancio dell’Istituto affidatole ed al benessere organizzativo dei lavoratori che vi prestano servizio, che con una vera e propria campagna denigratoria nei suoi confronti, aveva arrecato grave nocumento alla sua dignità personale e professionale, all’immagine dell’Istituto e agli interessi dei lavoratori, non potendo, infine, transigere sulla lentezza ed inescusabile negligenza nell’adempiere ai doveri inerenti agli Uffici Tutela, Restauro e Catalogazione da parte della persona offesa, che veniva per questi motivi, giudicata inadeguata a ricoprire incarichi di responsabilità”.
Il subordinato aveva dunque proposto ricorso per Cassazione, lamentando di essere stato diffamato. Ma è realmente così?
Critica della condotta professionale del dipendente e diffamazione
La Suprema Corte ha ampiamente argomentato le proprie decisioni partendo dalla considerazione secondo cui
il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione, non consente di esorbitare dai limiti della correttezza e del rispetto della dignità umana con espressioni che contengano un’intrinseca valenza mortificatrice della persona e si dirigano, più che all’azione censurata, alla figura morale del dipendente, traducendosi in un attacco personale sul piano individuale, che travalichi ogni ammissibile facoltà di critica.
Sancito e condiviso ciò, diviene essenziale accertare se l’espressione pronunciata dal titolare di una posizione sovraordinata si sia limitata alla censura di una determinata condotta lavorativa o professionale del sottoposto, ovvero, anche prendendo spunto da essa, “sia trasmodata in un attacco personale all’individuo, atteso che non esorbitano dall’area della liceità penale le contestazioni che non censurino la persona in sé e per sé considerata ma la condotta professionale del dipendente”.
Secondo la Corte, la sentenza impugnata ha correttamente interpretato questi principi, avendo coerentemente evidenziato che nella lettera incriminata, oltre a non essere stato oltrepassato il limite della continenza, non compaiono delle valutazioni gratuite sulla persona o sulla condotta in generale della parte civile.
Gli Ermellini affermano infatti in tal proposito che dal tenore letterale del documento inviato al datore di lavoro sarebbe stata
valutata in maniera pesantemente negativa, con toni aspri, solo la sua condotta lavorativa, essendole stato rimproverato, oltre che uno scarso rendimento in uno specifico settore lavorativo, un atteggiamento improntato a marcata ostilità nei confronti della stessa dirigente.
Peraltro, su questo specifico ultimo punto, la sentenza impugnata avrebbe messo in luce come questo rilievo trovi un effettivo e oggettivo riscontro in una relazione ispettiva, dalla quale era emerso che il ricorrente aveva siglato un esposto contro l’imputata, successivamente al quale non erano state formulate delle contestazioni formali all’operato della donna superiore gerarchica.
Nella sua parte conclusiva, la pronuncia della Corte afferma altresì come non sarebbe persuasivo l’assunto del ricorrente secondo cui la Dirigente non avrebbe potuto inviare una nota negativa sul dipendente ai superiori, non essendo questa formalità prevista dalla legge che regola il rapporto di pubblico impiego.
A prescindere dal rilievo che in questa sede si deve valutare non la correttezza amministrativa dell’operato della prevenuta (se dovesse o meno esercitare il potere disciplinare), ma la rilevanza penale delle espressioni contenute nella missiva “incriminata”, va osservato che, a seguito dell’entrata in vigore del dlgs n. 165/2001, il rapporto di pubblico impiego è stato attratto nell’orbita civilistica – l’art. 2 comma 2 della legge citata prevede al comma 2 che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinate dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle legge sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, e l’art. 63 che le eventuali controversie sono devolute alla cognizione del giudice ordinario – con la conseguenza anche il potere disciplinare del datore di lavoro pubblico ha assunto una connotazione più marcatamente di natura privatistica
afferma ancora la Corte.
Diffamazione del dipendente: una valutazione finale
A margine delle considerazioni che sopra abbiamo potuto trarre, cerchiamo dunque di compiere una breve valutazione finale sul tema della diffamazione del dipendente, e sui “confini” che il datore di lavoro non dovrebbe superare onde ricadere nel perimetro penale.
In tal senso, si può certamente sottolineare come non entrano nell’area della illiceità penale quelle contestazioni che sono mosse al fine non certo per censurare la persona in sé e per sé considerata, bensì quelle contestazioni che mirano a censurare la condotta professionale del dipendente.
In questo ambito, peraltro, la sentenza di cui oggi abbiamo compiuto rapido cenno è piuttosto chiara, affermando nelle sue valutazioni che la lettera “incriminata” non aveva contribuito a oltrepassare il limite della continenza e non erano comparse delle valutazioni gratuite sulla persona come individuo in sé considerato.
La lettera inviata avrebbe pertanto lecitamente (almeno, sotto il profilo del rilievo penale) valutato in modo pur pesantemente negativo e con toni evidentemente la sola condotta lavorativa del ricorrente, al quale è stato rimproverato – oltre che lo scarso rendimento in uno specifico settore lavorativo – un atteggiamento improntato a marcata ostilità nei confronti della dirigente.