Il reato di violenza sessuale fra coniugi – indice:
Un marito che costringe la propria moglie ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà è punibile per il reato di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis del Codice penale. Per quanto concerne la “prova” di quanto avvenuto, la Corte di Cassazione, terza sezione penale, nella sentenza 16608/2017 ha ricordato che può essere sufficiente la sola dichiarazione della donna, dopo che il giudice ne abbia intuibilmente vagliato l’attendibilità. Una pronuncia che rigetta il ricorso proposto dall’uomo, già ritenuto colpevole nel grado di giudizio precedente.
Una condotta da punire come reato di violenza sessuale
Con il primo motivo di lamentela il ricorrente deduceva la violazione della legge sulla base della ritenuta non corrispondenza tra la sua condotta ed il paradigma normativo di cui all’art. 609-bis cod. pen., che afferma che
Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
La Corte ha tuttavia rigettato il primo motivo di ricorso, ribadendo quanto già affermato dalla corte territoriale.
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Le dichiarazioni della donna come prova dirimente
Con il secondo motivo di lamentela invece l’uomo sosteneva la “asserita violazione di legge, in ordine ai reati di maltrattamenti in famiglia e di lesioni personali, (…)nonché in ordine alla contraddittorietà della motivazione laddove in essa si è dato pieno credito alle dichiarazioni della persona offesa senza che sia stata considerata l’elevatissima conflittualità esistente fra i due coniugi nonché la esistenza di un interesse da parte della persona offesa in relazione alla affermazione della penale responsabilità del prevenuto in ragione delle ricadute che tale dichiarazione potrebbe avere sulle controversie civili pendenti inter partes”.
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L’assenza di testimoni
La Corte rigettava anche questo secondo motivo di lamentela. I giudici hanno anzitutto sottolineato come nei reati sessuali spesso la perpetrazione della condotta avvenga alla sola presenza del soggetto cui è attribuito il comportamento delittuoso e della parte offesa, senza testimoni. Ebbene, in assenza di testimoni, “è sufficiente, ai fini della affermazione della penale responsabilità del prevenuto, la valutazione delle dichiarazioni rese dalla sola parte offesa, sebbene le stesse, seppure non necessitanti di riscontri, debbano essere sottoposte ad un accurato vaglio da parte del giudice del merito, attinente sia alla attendibilità soggettiva del dichiarante sia alla credibilità oggettiva di quanto da questo riferito”.
Sulla base di tale valutazione, la Corte ha poi ricordato come sia emerso con chiarezza, nei precedenti gradi, “che la donna, la quale neppure si è costituita parte civile in danno dell’imputato, ha riferito in sede dibattimentale che il marito la ha più volte costretta, anche con atti di violenza fisica di fronte al suo rifiuto, ad avere con lui rapporti sessuali”. Queste dichiarazioni per gli Ermellini sarebbero idonee a fondare il giudizio di condanna a carico del marito e, peraltro, “non sono state di fatto contestate se non genericamente, dalla difesa dell’imputato, attraverso un vago ed indeterminato riferimento alla sussistenza di una interesse della persona offesa all’esito del presente giudizio, potendo essere lo stesso successivamente “speso” nel corso di non meglio chiariti giudizi civili esistenti fra le parti”.
La precisione nella ricostruzione degli episodi
Peraltro, osserva la Corte aggiungendo un ulteriore e interessante spunto di riflessione, non rileva affermare che i fatti di violenza sessuale siano “solo compendiosamente richiamati nella loro articolata totalità, senza che siano delineate minutamente le forme in cui i singoli episodi si sono atteggiati”. Per i giudici è infatti evidente che, al di là della specifica indicazione delle singole fattispecie di violenza, “la descrizione dei fatti contestati al prevenuto ha sicuramente consentito a questo di esercitare validamente il proprio diritto di difesa”.
Lo stesso peraltro dicasi nei confronti della presunta inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie della donna a carico del marito, relativamente alle imputazioni di maltrattamenti in famiglia e di lesioni personali. “Anzi, va rilevato che, con specifico riferimento a tali reati, la Corte di appello ha indicato puntuali riscontri, costituiti da certificazioni mediche e dichiarazioni testimoniali di soggetti diversi dalla parte offesa -della cui esistenza e della cui forza probatoria l’imputato fa mostra di una piena ed ingiustificata negligenza nell’atto impugnatorio da lui depositato -tali da porre la decisione dei giudici torinesi al riparo da ogni censura sul punto”.