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Home » Commerciale » Bancario » Operazioni finanziarie, la banca risarcisce se l’investitore non ha prestato il consenso

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Operazioni finanziarie, la banca risarcisce se l’investitore non ha prestato il consenso

Avv. Beatrice Bellato consulenzalegaleitalia.it Operazioni finanziarie, la banca risarcisce se l’investitore non ha prestato il consenso
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Avv. Beatrice Bellato

Consenso su operazioni finanziarie – indice:

  • Gli investimenti e le proposte contrattuali
  • L’omessa informazione e conflitto di interessi
  • Il nesso tra inadempimento e danno
  • La quantificazione del danno
  • La responsabilità solidale

Stando a quanto riferisce la sentenza 20251/2021 a cura della Corte di Cassazione, la banca è tenuta a risarcire l’investitore se ha effettuato operazioni rischiose senza il suo preventivo consenso.

Cerchiamo di ricostruire brevemente lo svolgimento del processo. Vediamo inoltre quali sono state le motivazioni che hanno condotto i giudici di legittimità a formulare la propria decisione.

Investimenti e proposte contrattuali

Una banca ha impugnato la sentenza con cui la Corte d’appello, respingendo il gravame, ha confermato la decisione di prima istanza. La banca era stata condannata a risarcire il cliente dal danno patito in conseguenza dell’acquisto di una polizza emessa dalla compagnia facente parte dello stesso gruppo, conclusa in conflitto di interessi e in violazione degli obblighi informativi previsti dal TUF e dalla normativa di secondo livello.

Nel motivare il rigetto, il giudice distrettuale aveva ribadito le valutazioni già formulate nel primo grado. Dunque, sussistendo un’effettiva situazione di conflitto di interessi, era dovere della banca astenersi dal dare corso all’operazione senza aver preventivamente informato di ciò il cliente.

Il riferimento è all’art. 21, comma 1 bis TUF e dell’art. 23, comma 3, Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob del 29.10.2007 nei testi vigenti all’epoca, secondo cui:

l’intermediario ha… l’obbligo di informare il cliente del conflitto; se non lo fa, si deve astenere, obbligo che discende dall’interpretazione del dato testuale che richiede la necessaria informazione ai fini della decisione informata.

Considerato che la segnalazione era avvenuta solamente dopo la conclusione del contratto, per i giudici di seconde cure era corretta la condanna della banca al risarcimento, sussistendo il nesso causale nella misura riconosciuta pari alla differenza tra il capitale investito e quello riscosso.

L’omessa informazione e il conflitto di interessi

Il ricorso della banca si basa su una serie di motivi che partono dall’aver asserito che il conflitto di interessi non sarebbe pregiudizievole per il cliente. Il ricorso viene tuttavia rigettato, con la Cassazione che invece si sofferma soprattutto sugli altri motivi.

In particolare, il secondo si riferisce alla violazione dell’art 23 del regolamento Banca d’Italia – Consob del 29 ottobre 2007. La banca rileva che la disciplina di riferimento non prevede più alcun obbligo di astensione per l’intermediario che opera in conflitto di interessi.

Il quadro normativo

In realtà, affermano i giudici, fermo restando che è da escludere che il legislatore europeo e quello nazionale possano aver pensato di liberalizzare totalmente le operazioni in conflitto di interessi, una possibile franchigia dell’omissione informativa è comunque del tutto frutto di un travisamento del richiamato quadro normativo.

Più nel dettaglio, l’art 23 del regolamento di cui sopra, nel testo applicabile alla specie, non ha certo abdicato il principio disclose or abstain, ma – nel quadro di una riorganizzazione di essa fondata sul principio della prevenzione – si è passati da un’impostazione basata sul principio del consenso espresso ad un’impostazione basata sul principio del consenso tacito.

In ragione dei mutamenti che attraversano senza sosta il mercato finanziario – proseguono i giudici di Cassazione – e che rendono il conflitto di interessi una dimensione potenzialmente presente in qualunque contrattazione finanziaria, l’intento della riforma si è infatti indirizzato in direzione di un’attualizzazione della realtà disciplina per mezzo principalmente di un’accresciuta responsabilizzazione degli intermediari, che sono qui chiamati ad adottare “ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere con il cliente o tra clienti” e a gestire “”i conflitti di interessi anche adottando idonee misure organizzative… da evitare che tali conflitti incidano negativamente sugli interessi dei clienti”.

E ciò non senza fare nel contempo salva l’avvertenza che “quando le misure adottate ai sensi dell’art. 2 non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato, gli intermediari informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti dei conflitti affinché essi possano assumere una decisione informata sui servizi prestati, tenuto conto del contesto in cui le situazioni di conflitto si manifestano”.

Conflitto di interessi

Tale ultima disposizione – proseguono i giudici – rafforza il convincimento che la banca che intende promuovere la conclusione di un’operazione in conflitto di interessi non può che informarne in modo preventivo il cliente, e solo dopo che costui ha espresso il consenso, poiché ha assunto una decisione informata, l’operazione può avere seguito.

A tal riguardo, però, gli Ermellini ricordano come la norma non faccia cenno al fatto che la prestazione del consenso può essere implicitamente presupposta nella circostanza che l’intermediario non può agire se non dopo aver posto il cliente nella condizione di assumere una decisione pienamente informata. La quale non può essere perciò una mera espressione di assenso da parte sua. Differentemente, la banca si troverebbe nella condizione di non poter condurre a termine la transazione.

Il rilievo del passaggio normativo è dunque riscontrabile non nel fatto che la banca possa prescindere dal consenso dell’investitore. Bensì che quel consenso che in precedenza doveva essere prestato in forma espressa oggi può essere rilevato anche per il tramite di un comportamento concludente. Quale è, in sintesi, da ravvisarsi nel fatto che l’investitore, debitamente notiziato dalla conflittualità dell’operazione, non si opponga ad essa, tacitamente autorizzandone la conclusione.

Il nesso tra inadempimento e danno

Si giunge così al commento del terzo motivo di ricorso, ovvero sull’impugnata decisione del giudice di aver ritenuto la sussistenza in re ipsa del nesso causale tra inadempimento e danno, sebbene la banca non avesse violato alcun obbligo di astensione atteso che la disciplina vigente in tema di conflitto di interessi non ne prevede, alla luce dei principi generali in materia di responsabilità da inadempimento spettasse dunque al (cliente) provare la sussistenza del nesso causale” e, una volta informato, costui non avesse esercitato il diritto di recesso dal contratto.

Per gli Ermellini, però, il motivo è infondato.

I giudici della Suprema Corte evidenziano infatti come il motivo poggi su un presupposto inveritiero. Ovvero, l’insussistenza del dovere di astensione da parte della banca in caso di conflitto di interessi. Il legislatore, con le disposizioni che regolano la specie, non ha infatti voluto disgiungere l’obbligo di trasparenza. Il quale impone di informare il cliente che l’operazione avviene in conflitto di interessi. E, inoltre, il dovere di astensione se il cliente non è stato posto in condizione di assumere una decisione informata prestando il proprio consenso.

Pertanto, affermava correttamente il P.M., una volta “individuato l’oggetto della tutela che è la consapevole e compiuta informazione del cliente su ogni aspetto dell’operazione in strumenti finanziari, la violazione delle misure apprestate in quella direzione e delle regole poste per impedire il pericolo del pregiudizio definisce come tale la responsabilità del soggetto intermediario o collocatore a titolo omissivo”.

I giudici proseguono ricordando la stessa Corte avesse a suo tempo chiarito come la fattispecie in esame rispecchia quanto introdotto dall’art. 27 Reg. Consob 11522/1998, che postulava l’obbligo dell’intermediario di astenersi dalle operazioni in conflitto di interessi se non debitamente autorizzate dall’investitore.

Obblighi informativi

In tale ipotesi, peraltro, si evidenziava come la funzione degli obblighi informativi di colmare l’asimmetria informativa tra le parti sia foriera solo della presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio, e come “la violazione dell’obbligo giuridico di astensione a carico dell’intermediario esclude la necessità dell’accertamento del nesso causale, da ritenersi in “re ipsa”; invece nella differente ipotesi dell’inosservanza dell’obbligo di informazione attiva, specificamente prevista dall’art.  28, comma 2, del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, l’esistenza del nesso causale andrà accertata in concreto. Non potendosi escludere che l’investitore, una volta correttamente informato, avrebbe deciso di dar corso ugualmente all’investimento”.

Partendo da tale valutazione, gli Ermellini chiariscono come non vi sia ragione di pensare che i mutamenti normativi successivi abbiano modificato tale assunto sostanziale. Precisano ancora una volta il principio sulla base del quale le operazioni in conflitto di interessi non possono avere seguito senza il consenso dell’investitore. A cambiare è, semmai, l’assetto del consenso. La conseguenza è che l’operazione posta in essere dall’intermediario in una situazione di conflitto di interesse del quale non abbia preventivamente informato l’investitore, e rispetto al compimento della quale non sia stato autorizzato (anche solo nella forma del tacito consenso), è fonte di responsabilità dell’intermediario se si rivela pregiudizievole. Solamente l’adesione ad essa dell’investitore è infatti in grado di recedere il nesso di causalità. Che, altrimenti, sussiste tra la violazione dell’obbligo informativo a cui l’intermediario è tenuto nel realizzare un’operazione in conflitto di interessi e il danno dell’investitore.

La quantificazione del danno

Risulta dunque di ulteriore interesse soffermarsi sulla quantificazione del danno. Il ricorrente lamenta infatti la violazione dell’art. 1223 c.c., rubricato “Risarcimento del danno”, secondo cui

Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.

Il cliente della banca ricorre infatti contro la decisione della Corte d’Appello. Che, nella sua sentenza, aveva ritenuto cristallizzato il danno, disponendo la liquidazione nella somma che corrisponde alla differenza quanto versato e quanto rimborsato. Anche se, nella fattispecie, è mancata la cristallizzazione della minusvalenza e non si potesse pertanto parlare di una perdita perché “il quantum della stessa è allo stato del tutto indeterminato ed indeterminabile”.

Anche questo motivo viene però ritenuto inammissibile.

I giudici della Suprema Corte ritengono infatti che la Corte d’Appello, nel confermare l’assunto del giudice di primo grado e ritenere corretta la liquidazione del danno patito dal cliente nella differenza tra quanto investito e quanto incassato come rimborso, condivide il criterio già enunciato dalla stessa Cassazione con precedente sentenza n. 29353/2018, secondo cui la parametrazione del risarcimento del danni deve avvenire in misura pari alla differenza tra il valore dei titoli al momento del relativo acquisto e quello degli stessi al momento della domanda risarcitoria.

Pertanto, i giudici di prime cure, attenendosi a tale criterio, hanno realizzato un giudizio di valore pienamente coerente. Si sono basati infatti sull’apprezzamento di quelle circostanze che sono emerse durante la vicenda. Trattandosi di un accertamento di merito, evidentemente, non può essere suscettibile di un giudizio di legittimità da parte della Corte, considerato anche che la pretesa potenzialità del danno che viene eccepita dal cliente nel formulare il motivo è tale non certo in forza di dati concreti disponibili al momento della decisione, bensì in ragione di ipotetici e non prevedibili rimborsi futuri, considerato che potenziale non è il danno liquidato dal decidente ma gli ulteriori rimborsi che l’investitore potrebbe essere deputato a ricevere in futuro.

Compagnia assicurativa e banca, responsabilità solidale?

Vi è poi un ulteriore motivo di ricorso che, tuttavia, non riguarda il cliente della banca. Riguarda infatti solamente la compagnia assicurativa parte del gruppo bancario interessato dalla pronuncia, collocatore della polizza.

Il ricorrente sottolinea come la Corte d’Appello sia incorsa in un errore pronunciando la solidale responsabilità della banca con la compagnia assicuratrice.

È infatti vero che da un lato la responsabilità solidale è configurabile solamente in relazione con la stessa prestazione. Sarebbe, invero, “di palmare evidenza… la diversità delle prestazioni” alle quali sono obbligate la banca e la compagnia assicuratrice. La prima è infatti tenuta a fornire al cliente tutte le informazioni sull’investimento, mentre la seconda risponde esclusivamente per l’eventuale violazione delle obbligazioni assunte ed attinenti alla fase formativa ed esecutiva del contratto.

Dall’altro lato, si sarebbero ritenute applicabili alla compagnia assicurativa le disposizioni in tema di conflitto di interessi, quantunque – si legge nelle motivazioni – esse “siano applicabili alle imprese di  assicurazione solo quando esse distribuiscono direttamente prodotti finanziari ed assicurativi”, mentre nella specie alla collocazione della polizza aveva provveduto la banca e solo su di essa gravavano pertanto gli obblighi informativi a cui erano tenuti gli intermediari.

Il motivo viene ritenuto dalla corte come inammissibile.

I giudici di Cassazione sostengono infatti come occorra prendere atto del conflitto di interessi che si determinare tra la banca che ha “venduto” la polizza e la compagnia assicurativa che l’ha emessa, considerata anche l’estraneità alla vicenda della compagnia rispetto alla banca, e da cui la compagnia intende prendere le distanze contestando la solidarietà risarcitoria affermata dai giudici di merito, e separando in questo modo la propria posizione rispetto a quella dell’istituto di credito.

Una simile condotta – sostengono gli Ermellini – “rende inammissibile, come reiteratamente affermato da questa Corte, il conferimento di unico mandato difensivo ed inammissibile la costituzione in giudizio a mezzo dello stesso procuratore, per irriducibile contrasto con il diritto di difesa ed il principio del  contraddittorio, valori costituzionalmente garantiti (…) Ne consegue che in parte qua il ricorso non può trovare alcun seguito. Nè rileva l’asserzione sull’intervenuta rinuncia della Compagnia al regresso nei confronti della Banca per la condanna in solido di cui alla memoria agli atti. Non non consta che la relativa volontà sia debitamente formalizzata nei modi previsti dalla legge”.

Alla luce di quanto sopra, dunque, i giudici di Cassazione respingono tutti i motivi di ricorso tranne l’ultimo, dichiarato inammissibile.

Avv. Bellato – diritto bancario

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