Criptovalute come prodotti finanziari – guida rapida
- I fatti
- La natura di moneta virtuale
- I soggetti che operano nell’ambito criptovalutario
- I caratteri dell’investimento finanziario
Con sentenza n. 44378 del 22 novembre 2022 la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema delle criptovalute affermando che si tratta di prodotti finanziari. Per i giudici della Suprema Corte, infatti, questi asset rivestono la natura di investimento finanziario, contraddistinguendosi di fatti per a) impiego di capitali, b) aspettativa di rendimento, c) rischio connesso all’impiego di capitali.
Scopriamo insieme quali sono le valutazioni compiute dalla Suprema Corte partendo dalla breve ricostruzione dei fatti.
I fatti: le criptovalute come prodotti finanziari
Con ordinanza del 9 novembre 2021 il Tribunale di Brescia confermava l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari laddove aveva rigettato la richiesta del Pubblico Ministero di disporre il sequestro preventivo di un wallet contenente 30 bitcoin oggetto di reato ex art. 648 ter 1 c.p..
Contro tale ordinanza ricorre in Cassazione il Pubblico Ministero, che eccepisce che l’ordinanza aveva ritenuto erroneamente insussistente il reato di esercizio abusivo dell’attività finanziaria.
I giudici avevano ritenuto che quanto alla fattispecie ex art. 166 TUF fosse necessario stabilire se la condotta addebitata all’imputato integrasse o meno offerta di servizio o attività di investimento come descritta dall’art. 1 TUF, ritenendo che questa dimostrazione sulla riconducibilità del progetto dell’imputato ad esercizio di attività finanziaria non fosse raggiunta in assenza di ulteriori indagini.
Per il PM i giudici avevano erroneamente ricondotto alla sola ipotesi tipizzata ex art. 1 co. 5 TUF le condotte sussumibili nell’esercizio di attività finanziaria, automaticamente escludendo quella di ICO (Initial Coin Offering) a cui era riconducibile la contestazione, come risultava dalla lettura del white paper del progetto, da cui si poteva rilevare come venisse pubblicizzato come offerta di investimento.
Il PM ricorda ancora come già la Guardia di finanza avesse evidenziato come il white paper fosse un documento fondamentale per l’avvio di una ICO, finalizzato a descrivere ai potenziali investitori il progetto sulla creazione di nuove startup e iniziative nel mondo virtuale, e i suoi aspetti tecnici-finanziari-economici, con la conseguenza che non vi era necessità di svolgere ulteriori accertamenti e che i 30 BTC della richiesta di sequestro integravano profitto del reato.
Per il PM, insomma, i bitcoin depositati nel wallet erano profitto illecitamente sottratto ai risparmiatori/investitori, oggetto di truffa.
La natura di moneta virtuale
Per la Corte di Cassazione il ricorso è fondato.
I giudici della Suprema Corte ritengono innanzitutto opportuno alcuni concetti sulla moneta virtuale, partendo dalla direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018. Nel documento, di modifica della IV Direttiva Antiriciclaggio, la moneta virtuale viene definita come
una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente.
La ratio della norma, per i giudici, intende disciplinare i rapporti tra moneta virtuale e moneta corrente, senza definire il fenomeno. Il documento sottolinea ancora come
sebbene le valute virtuali possano essere spesso utilizzate come mezzo di pagamento, potrebbero essere usate anche per altri scopi e avere impiego più ampio, ad esempio come mezzo di scambio, di investimento, come prodotti di riserva di valore o essere utilizzate in casinò online.
Arriviamo dunque alla definizione che dà il legislatore italiano, contenuta nell’art. 1 del d.lgs. 231/2007, modificato dal d.lgs. 4 ottobre 2019, n. 125, dove le moneta virtuale viene definita come
la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente.
Come si può facilmente vedere, la definizione del legislatore nazionale è molto simile a quella del legislatore europeo, con la differenza che si fa subito riferimento alla finalità di investimento.
I soggetti che operano nell’ambito delle criptovalute
Per quanto poi riguarda i soggetti che operano nell’ambito delle monete virtuali, un’altra definizione richiamata dal giudice è quella di exchanger, colui che gestisce le piattaforme exchange. A loro volta, gli exchange sono piattaforme tecnologiche che consentono di scambiare questo prodotto finanziario, la cui funzione è quindi quella di consentire di effettuare l’acquisto e la vendita delle criptovalute e di realizzare così i profitti. Tra i soggetti obbligati a iscriversi nell’apposito registro tenuto presso l’OAM sono inclusi anche i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale
Ora, con riferimento all’uso della moneta virtuale come mezzo di scambio o come strumento finanziario, la Corte di Cassazione ha già precisato con sentenza n. 26807 del 17 settembre 2020 che ove la vendita di bitcoin venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento si ha un’attività soggetto agli adempimenti ex artt.91 e seguenti TUF.
Nella fattispecie in esame, la ricostruzione dei fatti contenuta nell’ordinanza impugnata favorisce la conclusione che l’attività posta in essere dall’imputato integra l’ipotesi di cui all’art. 166 d.lgs. n. 58/1998 lett. c), che sanziona chiunque
offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento.
In questo caso, la raccolta di fondi aveva avuto come finalità la creazione di una piattaforma decentralizzata di servizi logistici, e a chi aveva contribuito erano stati corrisposti in cambio LWF Coin, che costituivano dunque dei titoli per l’utilizzo dei servizi della piattaforma.
I caratteri dell’investimento finanziario e le criptovalute
A questo punto, i giudici della Suprema Corte richiamano anche la sentenza del Tribunale di Verona del 24 gennaio 2017, che aveva qualificato come strumenti finanziari alcune valute virtuali acquistate su una piattaforma di scambio, facendo propria la tesi secondo cui caratteri distintivi dell’investimento di tipo finanziario sono:
- un impiego di capitali riconducibile generalmente al denaro o a un capitale proprio che può corrispondere anche a una valuta virtuale
- una aspettativa di rendimento
- un rischio proprio dell’attività prescelta, che è direttamente connesso all’impiego di capitali.
Tutti questi tre caratteri sarebbero stati rilevanti nel caso in esame, visto e considerato che i soggetti interessati all’investimento, per ottenerlo:
- hanno erogato capitali sotto forma di bitcoin
- con aspettativa di ottenere un rendimento, rappresentato dalla corresponsione di altre monete virtuali che avrebbero consentito la partecipazione alla piattaforma, dal valore variabile a seconda del modello dell’acquisto e che avrebbe acquistato maggiore valore se il progetto relativo alla piattaforma avesse avuto successo
- hanno assunto su di sé un rischio collegato al capitale investito.
Da quanto sopra ne deriva che la valuta virtuale deve essere considerata sempre strumento di investimento, considerato che rappresenta un prodotto finanziario. Come tale, deve essere disciplinata con le norme relative all’intermediazione finanziaria di cui agli artt. 93 ss. del TUF. Tale quadro normativo garantisce infatti una disciplina unitaria di diritto speciale a tutela dell’investimento.
Dunque, prosegue la pronuncia, chi eroga i servizi oggi in commento non può che essere tenuto a un incremento dei propri obblighi informativi nei confronti del consumatore. Deve infatti permettere allo stesso di conoscere i contenuti dell’operazione economico – contrattuale. E, dunque, maturare una scelta negoziale meditata.
I giudici sottolineano poi come l’art. 1 comma 1 lett. t) del TUF definisca offerta al pubblico
ogni comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti, così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari, incluso il collocamento tramite soggetti abilitati.
Dal canto suo, l’art. 1 comma 2 TUF dispone invece che
si intende qualsiasi strumento riportato nella sezione C dell’Allegato I. Gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari.
Ora, la motivazione del Tribunale secondo cui non sussisterebbero indizi del reato ex art. 166 co. 1 d.lgs. 58/1998 perché non risulterebbero specifici accertamenti tali da ritenere configurata una offerta di servizio o attività di investimento è quindi contraddittoria con i fatti riassunti, integrando violazione di legge e, nel dettaglio, dell’art. 166 TUF. A nulla rileva il fatto che i soggetti che hanno conferito il capitale non abbiano presentato denunce.
Proprio il rischio assunto, di cui erano consapevoli, rafforza invece la conclusione che l’operazione posta in essere costituisse un vero e proprio investimento.
L’ordinanza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio al Tribunale per un nuovo esame.