In download di materiale pedopornografico ed il reato di diffusione – indice:
In data 15 luglio del 2015 la Corte di Cassazione si è espressa con un’importante sentenza nell’ambito del reato di pedopornografia di cui all’articolo 600-ter terzo comma del Codice Penale. La pronuncia, numero 30465 del 15 luglio del 2015 della Terza Sezione della Corte, ha ritenuto come non sussistente il dolo per la circostanza in cui un soggetto si limiti a scaricare telematicamente sul proprio computer del materiale pedopornografico.
Ad avviso della Suprema Corte dunque, non è integrato il reato per la sola circostanza che il materiale sia scaricato e lasciato nelle cartelle del file sharing. Affinché il reato sia provato è necessario dimostrare che il soggetto agente abbia non solo voluto scaricare il materiale sul proprio computer, ma lo abbia lasciato nelle cartelle atte alla condivisione, nel caso specifico “incoming” di Emule, con la precisa volontà di volerlo condividere con altri utenti della rete.
L’accusa ritiene sufficiente la detenzione del materiale pedopornografico
Nell’ambito di tale processo penale invece, l’accusa riteneva sussistente una presunzione in base alla quale la sola circostanza che l’imputato avesse lasciato i file nelle cartelle atte alla condivisione fosse sufficiente a ritenere consumato il reato di cui al terzo comma dell’articolo 600-ter del Codice Penale; tale orientamento, condiviso dalla Corte d’Appello di Milano è invece stato disatteso dalla Suprema Corte che ha ribaltato l’esito del giudizio.
La difesa dell’imputato ha precisamente obiettato come le impostazioni del programma di file sharing utilizzato, nel caso specifico (Emule), d’altra parte comuni alla maggior parte dei software di questo tipo, includano i file scaricati “di default” nella cartella atta alla condivisione, ma non per questo è integrata la necessaria volontà da parte di chi ha scaricato tale materiale di volerne condividere il contenuto. Si tratterebbe casomai, di una negligenza che potrebbe integrare la fattispecie di un reato omissivo e non commissivo: difettando l’elemento soggettivo non può parlarsi dunque del reato di cui al sopra citato articolo.
I reati connessi all’utilizzo dei programmi di file sharing
Tale importante pronuncia giurisprudenziale fissa in realtà un principio ulteriore e generale rispetto al reato di pedopornografia esaminato.
In tutti i casi in cui delle norme a rilevanza penale prevedano la “diffusione” di materiale illecito, sarà dunque onere dell’accusa provare come il lasciare del materiale nelle cartelle atte alla condivisione non sia dovuto soltanto ad una mancanza o ad una dimenticanza dell’imputato, ma che lo stesso abbia espressamente voluto condividere tale materiale.
Si tratta di un onere probatorio senza dubbio difficile da espletare, ma tale interpretazione appare coerente con la prassi dell’utilizzo di questi software ove l’utente medio non si cura generalmente delle cartelle in cui vengono inseriti i file scaricati, ma fa uso del programma precipuamente per attingere alla fonte della condivisione. In base a tale principio appare dunque plausibile la necessità di valutare caso per caso il comportamento dell’imputato: le sue abitudini e la sua competenza in ambito telematico, nonché l’ordine con il quale è solito organizzare o riorganizzare il materiale scaricato più o meno lecitamente dai programmi di file sharing.
Una pronuncia di questo tipo apre inoltre nuovi scenari sul fronte della violazione del diritto d’autore: da valutare attentamente se la giurisprudenza persevererà su questa scelta interpretativa della Cassazione Penale e tale scelta sarà condivisa anche dalla futura giurisprudenza in altri ambiti.